Negli ultimi mesi mi è capitato spesso di incrociare esperienze e saperi molto diversi. Soprattutto, negli ultimi mesi ho imparato a guardare a queste esperienze non più come ambiti di specializzazione a cui ricorrere se ho bisogno di una spiegazione rispetto a una materia che padroneggio poco. Credo davvero che, cambiato il mestiere del giornalista, la collaborazione con altre professionalità sia una strada importante di crescita e di elaborazione delle idee.
Il giornalista deve funzionare un po’ da hub territoriale, incrociare storie e mettere in contatto esigenze e saperi.
Il racconto di una comunità è anche la narrazione dei nodi e dei legami, l’incrocio di domande e bisogni, delle continue connessioni e delle inaspettate occasioni. Ma quel racconto ha senso solo se lo si riesce a condividere. Magari, poi, cresce anche la capacità di mutuare conoscenza.
Così ho pensato di condividere alcune chiacchierate che mi capita di fare incontrando per lavoro o solo per caso quelle professionalità. Capita di indagare il significato di città, l’idea di comunità, la prospettiva, lo sguardo sul futuro. A pensarci sono in fondo i temi in cui si snoda la riflessione sull’innovazione in un territorio.
Poi, se hanno pazienza, mi accontentano anche nel rendere pubblico qualche loro pensiero.
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Comincio con il condividere quelli di Marco Percoco. È un economista, di quelli innamorati dell’ambito locale. Insegna a valutare le politiche pubbliche alla Bocconi e il suo blog si chiama Geografie sociali. Questo è il suo punto di vista sulla dimensione urbana.
Sei un economista ed insegni uno sguardo sociale sui territori: dove si trova il punto d’incontro?
L’economia sta conoscendo un momento di grande fervore, anche se mi rendo conto che poco riesce a trapelare dalle aule universitarie, ormai ridotte a circoli culturali elitari. Oggi, la frontiera è nella contaminazione con le altre scienze sociali, e per quanto mi riguarda questo significa leggere i territori con la consapevolezza che l’uomo e le famiglie, gli agenti economici primordiali (rappresentano pur sempre la domanda), vivono lo spazio fisico, anche costruito, e sono immersi nello spazio delle relazioni sociali che sanno costruire. Sono relazioni fatte di affetti, reciprocità e fiducia. Se non esistesse la fiducia, non esisterebbe il commercio (prendere anche solo il caffè al bar significa fidarsi che il barista usi gli ingredienti giusti) ed ultimamente non esisterebbero le città.
Che cosa significa dare valore sociale all’innovazione?
La rilevanza sociale di una nuova tecnologia dipende ovviamente dalla sua utilità ma anche, e forse soprattutto, dalla sua accessibilità. In questo, i nostri alleati sono il freeware, gli open access, le licenze creative commons. Detto questo, oggi dobbiamo anche puntare sull’innovazione sociale, ovvero su un modo diverso di condurre la società, soprattutto per migliorare la gestione dei beni comuni e per garantire migliori servizi alla persona.
La tua idea di città?
È una città che si comporta come un organismo vivente, ovvero coordinata nei movimenti e che si prenda cura di se stessa. È’ una città vivibile per i cittadini, prima ancora che per le imprese, e che pianifica il suo sviluppo in maniera equilibrata. Faccio un esempio. Pianificare un nuovo quartiere, significa far crescere una città, ma non dobbiamo farci bastare le sole tonnellate di cemento utili per costruire lo spazio da abitare. Dobbiamo domandare quei servizi alla persona essenziali per costruire anche lo spazio relazionale (scuole, luoghi di incontro, servizi culturali, trasporto pubblico, etc.).
La tua idea di comunità?
Non è lontana da quella di città. La differenza, soprattutto oggi, sta nella prossimità spaziale. Ovvero, perché una città sia tale, è necessario che le persone siano in qualche modo vicine fisicamente. Oggi le comunità possono essere delle meta-città.
Come è cambiato negli ultimi anni il modo di osservare i territori?
Devo ammettere che le idee sono tutto sommato sempre le stesse da oltre un secolo a questa parte. Ma questo, se vuoi, è il dramma delle scienze sociali. Cambiano gli strumenti. Oggi, tracciando i segnali GPS, riusciamo a visualizzare le città e i territori non solo dal punto di vista dello spazio costruito o della geografia fisica, ma anche delle interazioni tra le persone. Ed in questo le città diventano ai nostri occhi davvero degli organismi viventi perché l’immagine di una città alle 10 del mattino, con una certa concentrazione di persone in alcuni luoghi, è diversa da quella delle 10 di sera.
Che cosa significa programmare?
Significa due cose. Avere una visione (ragionevole) di ciò che sarà e potrà essere un territorio. Ideare e far accadere le cose. La nostra Basilicata pecca, ahimè, nell’una e nell’altra cosa. Ma devo ammettere che in questo è in buona compagnia della maggior parte delle regioni italiane. Siamo i sommi sacerdoti delle occasioni perdute.
La tua visione di futuro?
Spero un futuro più trasparente e consapevole: individui e comunità che partecipano alle decisioni collettive in maniera razionale ed informata, senza possibilità di manipolazioni di sorta. Ma so che questo è solo un pio desiderio.