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Gli stranieri al luogo

1camminataSono convinta che i luoghi vadano esplorati, e non giudicati.

E credo che l’esplorazione sia la via migliore della conoscenza.

Quando sono in un posto nuovo – ma vale anche per il mio posto abituale – mi piace che a raccontarmelo siano quanti lo hanno attraversato e scoperto prima di me. Meglio se mezzi stranieri, o residenti che hanno la capacità di applicare lo sguardo da fuori.

È quello sguardo speciale, di chi ti ti introduce ai luoghi e te ne fa amare i dettagli, non i panorami.

Ho ritrovato traccia di questa sensazione in uno dei testi raccolti da Vittorio Gregotti in 96 ragioni critiche del progetto. La sua idea di sguardo dello straniero è racchiusa in una lettera indirizzata a Wim Wenders:

«Credo che per conquistare un luogo, una città o un paesaggio al nostro animo prima ancora che all’architettura abbiamo bisogno di due cose: che in quel luogo (o con quel luogo) si lavori concretamente e non solo lo si visiti e che qualche Virgilio ci introduca, ci accompagni, ci aiuti. Altri che, come noi e prima di noi, abbiano frequentato, interpretato, amato quel luogo. (…) Parlo proprio di quegli stranieri al luogo ci hanno fatto da traduttori, da tramite, lungo un percorso che essi stessi avevano compiuto per conoscere.»

«Immersi nelle relazioni sociali costruite sulla fiducia»

Negli ultimi mesi mi è capitato spesso di incrociare esperienze e saperi molto diversi. Soprattutto, negli ultimi mesi ho imparato a guardare a queste esperienze non più come ambiti di specializzazione a cui ricorrere se ho bisogno di una spiegazione rispetto a una materia che padroneggio poco.  Credo davvero che, cambiato il mestiere del giornalista, la collaborazione con altre professionalità sia una strada importante di crescita e di elaborazione delle idee.

Il giornalista deve funzionare un po’ da hub territoriale, incrociare storie e mettere in contatto esigenze e saperi.

Il racconto di una comunità è anche la narrazione dei nodi e dei legami, l’incrocio di domande e bisogni, delle continue connessioni e delle inaspettate occasioni.  Ma quel racconto ha senso solo se lo si riesce a condividere. Magari, poi, cresce anche la capacità di mutuare conoscenza.

Così ho pensato di condividere alcune chiacchierate che mi capita di fare incontrando per lavoro o solo per caso quelle professionalità.  Capita di indagare il significato di città, l’idea di comunità, la prospettiva, lo sguardo sul futuro. A pensarci sono in fondo i temi in cui si snoda la riflessione sull’innovazione in un territorio.

Poi, se hanno pazienza, mi accontentano anche nel rendere pubblico qualche loro pensiero.

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Marco PercocoComincio con il condividere quelli di Marco Percoco. È un economista, di quelli innamorati dell’ambito locale. Insegna a valutare le politiche pubbliche alla Bocconi e il suo blog si chiama Geografie sociali. Questo è il suo punto di vista sulla dimensione urbana.

Sei un economista ed insegni uno sguardo sociale sui territori: dove si trova il punto d’incontro?

L’economia sta conoscendo un momento di grande fervore, anche se mi rendo conto che poco riesce a trapelare dalle aule universitarie, ormai ridotte a circoli culturali elitari. Oggi, la frontiera è nella contaminazione con le altre scienze sociali, e per quanto mi riguarda questo significa leggere i territori con la consapevolezza che l’uomo e le famiglie, gli agenti economici primordiali (rappresentano pur sempre la domanda), vivono lo spazio fisico, anche costruito, e sono immersi nello spazio delle relazioni sociali che sanno costruire. Sono relazioni fatte di affetti, reciprocità e fiducia. Se non esistesse la fiducia, non esisterebbe il commercio (prendere anche solo il caffè al bar significa fidarsi che il barista usi gli ingredienti giusti) ed ultimamente non esisterebbero le città.

Che cosa significa dare valore sociale all’innovazione?
La rilevanza sociale di una nuova tecnologia dipende ovviamente dalla sua utilità ma anche, e forse soprattutto, dalla sua accessibilità. In questo, i nostri alleati sono il freeware, gli open access, le licenze creative commons. Detto questo, oggi dobbiamo anche puntare sull’innovazione sociale, ovvero su un modo diverso di condurre la società, soprattutto per migliorare la gestione dei beni comuni e per garantire migliori servizi alla persona.

La tua idea di città?
È una città che si comporta come un organismo vivente, ovvero coordinata nei movimenti e che si prenda cura di se stessa. È’ una città vivibile per i cittadini, prima ancora che per le imprese, e che pianifica il suo sviluppo in maniera equilibrata. Faccio un esempio. Pianificare un nuovo quartiere, significa far crescere una città, ma non dobbiamo farci bastare le sole tonnellate di cemento utili per costruire lo spazio da abitare. Dobbiamo domandare quei servizi alla persona essenziali per costruire anche lo spazio relazionale (scuole, luoghi di incontro, servizi culturali, trasporto pubblico, etc.).

La tua idea di comunità?
Non è lontana da quella di città. La differenza, soprattutto oggi, sta nella prossimità spaziale. Ovvero, perché una città sia tale, è necessario che le persone siano in qualche modo vicine fisicamente. Oggi le comunità possono essere delle meta-città.

Come è cambiato negli ultimi anni il modo di osservare i territori? 
Devo ammettere che le idee sono tutto sommato sempre le stesse da oltre un secolo a questa parte. Ma questo, se vuoi, è il dramma delle scienze sociali. Cambiano gli strumenti. Oggi, tracciando i segnali GPS, riusciamo a visualizzare le città e i territori non solo dal punto di vista dello spazio costruito o della geografia fisica, ma anche delle interazioni tra le persone. Ed in questo le città diventano ai nostri occhi davvero degli organismi viventi perché l’immagine di una città alle 10 del mattino, con una certa concentrazione di persone in alcuni luoghi, è diversa da quella delle 10 di sera.

Che cosa significa programmare?
Significa due cose. Avere una visione (ragionevole) di ciò che sarà e potrà essere un territorio. Ideare e far accadere le cose. La nostra Basilicata pecca, ahimè, nell’una e nell’altra cosa. Ma devo ammettere che in questo è in buona compagnia della maggior parte delle regioni italiane. Siamo i sommi sacerdoti delle occasioni perdute.

La tua visione di futuro?
Spero un futuro più trasparente e consapevole: individui e comunità che partecipano alle decisioni collettive in maniera razionale ed informata, senza possibilità di manipolazioni di sorta. Ma so che questo è solo un pio desiderio.

Un patrimonio delle piccole e medie città

persone seduteNel 2010 il sindaco di Instabul, intervenendo al forum dei leader locali, spiegò dove stava andando il futuro, almeno in ambito urbano: «Le piccole e le medie città, quelle che nessuno conosce, cresceranno più velocemente».

La citazione fa parte di un pacchetto di dichiarazioni e punti di vista raccolti da Urbantimes, uno spazio collettivo che si occupa di città e persone.

A scorrere tutte le citazioni (Twenty of the best quote about sustainable cities) emerge la consapevolezza che lo sviluppo dei luoghi arriva  – o può arrivare – lì dove si mette l’attenzione sulle persone, sul loro rapporto con l’ambiente, sulle relazioni tra le persone in quell’ambiente.

Ed è facile intuire che le dimensioni ridotte facilitino la progettazione disegnata sulle comunità. Nelle piccole città è più facile recuperare rete, costruire relazioni, mettere in circolazione idee.

Certo, gli spazi adatti a ciascuno e a ogni cosa è più difficile trovarli che nelle metropoli. In genere bisogna mediare, sperimentare, fallire, ripensare, battagliare. È una negoziazione continua capace, però, di produrre spazi creativi, soluzioni, nuove piccole comunità.

Nel 2008, prima dello scoppio della bolla finanziaria, un gruppo di ricercatori italiani ha provato a spiegare l’apparente contraddittoria coesistenza di un aumento del reddito e di uno scarso benessere collettivo negli Stati Uniti. L’unico fattore in grado di equilibrare la serenità dei cittadini, spiegarono i ricercatori, è il capitale sociale, costruito sui network sociali e nelle relazioni di ciascuno.

Se ne parla nel libro Happy City di Charles Montgomery di cui il Guardian pubblica un estratto: The secrets of the world’s happiest cities.

Che cosa fa di una città il posto ideale in cui vivere? La mobilità, l’incontro tra abitanti, il costo degli affitti?

In molti degli esempi raccolti in giro per il mondo la svolta positiva è arrivata dove le amministrazioni hanno saputo costruire una strategia di cambiamento che coinvolgesse in modo positivo la comunità, lavorando su abitudini, atteggiamento, immaginario.

È un’idea che gli amministratori locali dovrebbero sempre tenere presente. Soprattutto ora che in periodo di campagna elettorale in tanti si prodigheranno a raccontare e proporre le città da cambiare.

È un principio che coinvolge tutti quelli responsabili della crescita delle comunità, politici certo, ma anche giornalisti o formatori.

La spinta maggiore all’innovazione e al cambiamento arriva da un capitale sociale fatto di esperienze, competenze, storie, persino errori.

La spinta arriva quando c’è scambio di conoscenze, quando non c’è isolamento.

La classe dirigente ha la responsabilità di capire che la comunità, quel patrimonio, vuole poterlo utilizzare.

Passa il messaggio: la nomination che fa solidarietà

smsAismCi sono idee che valgono doppio perché si portano dietro il valore aggiunto della solidarietà. I ragazzi del gruppo Young dell’Aism di Potenza hanno avuto una di queste idee.

Hanno preso una dinamica semplice, molto comune nei giochi di gruppo, e l’hanno reinventata, facendone un’esperienza di comunità locale.

Si chiama Passa il messaggio ed è un evento su Facebook pensato per promuovere la campagna di finanziamento della ricerca sulla sclerosi multipla. Il meccanismo è quello delle catene di Sant’Antonio, del coinvolgimento a nodi e diramazioni.

La dinamica non è certo nuova. Il team di Aism Potenza ha aggiunto però grande capacità di coinvolgimento. Con una posta in gioco interessante:  in Passa il messaggio il tag di sfida  è un invito alla partecipazione positiva, alla condivisione gioiosa di un gesto solidale.

Si comincia dall’invito dell’Aism ad inviare un sms al numero 45509 per donare 2 euro alla ricerca. Una volta ricevuto il messaggio di conferma delle donazione, basta pubblicare lo screenshot della ricevuta sull’evento Facebook. L’importante è ricordarsi di taggare altri amici che vengono chiamati in causa e invitati così a fare altrettanto. Fin qui, la dinamica di base.

In poche ore il gruppo dei partecipanti attivi all’evento è cresciuto, il gioco è stato ripreso in altre città e gli utenti hanno modificato con creatività il racconto del gesto solidale.

aism5Chi partecipa ha voglia di dirlo perché là dentro ci si sta in tanti. E non è esibizionismo, ma una sfida collettiva di solidarietà.

Gli sms di ricevuta che testimoniano la donazione vengono pubblicati personalizzando un selfie, o modificando una foto di gruppo, spiegati con lunghe didascalie se la foto è sfocata. C’è chi non è «pratico di questo Facebook» e allora chiede ad amico di fare le nomination/tag in propria vece. Ci sono gruppi interi che danno un contributo: la squadra di rugby della città è diventata praticamente main sponsor dell’iniziativa.

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ph Cristian Stolfi

«Sappiamo che nelle campagne più lunghe  il periodo finale registra sempre un calo dell’attenzione», spiega Ida, referente dei volontari in Basilicata.

«Avevamo bisogno di uno spazio che riattivasse il coinvolgimento. Questo gioco ci permette di costruire tante connessioni positive, lasciando che le nomination di chi partecipa arrivino anche a quanti ancora non sanno che cosa fa Aism. Nel frattempo, riusciamo anche a dare un senso di concretezza alla partecipazione: gli screenshoot delle ricevute testimoniano una solidarietà reale».

Nell’evento, così, si è ritrovata una comunità eterogenea, fatta di pezzi della città, di amici lontani, di nodi distanti che hanno ramificato una piccola sfida di solidarietà collettiva, mettendo in connessione valore.

Ancora un paio di cose importanti.

Qualche giorno fa Paolo Iabichino, a proposito di tendenze pericolose, riprendeva l’attenzione che i media stanno consegnando al fenomeno del Neknominate, senza badare poi molto alle risposte positive che in rete nascono spontanee: la cattiva notizia è sempre una buona notizia, scriveva.

La spinta propositiva e culturale che spetta al giornalismo è uno di quegli aspetti del mestiere che dimentichiamo spesso. Ma credo anche che la dimensione locale possa aiutare un giornalista  a imbattersi in queste storie positive, a impattare in impegno civico.  Quella costruita dall’Aism di Potenza è una piccola buona pratica. Con altri abbiamo provato a raccontarla. Andate a sbirciare, partecipate, raccontatela.

Non dimenticate l’SMS per la ricerca contro la sclerosi multipla (c’è tempo per donare fino al 16 marzo) e passate su Facebook, nell’evento Passa il messaggio: troverete gente in gamba, davvero. Poi, se in questo fine settimana siete in giro, andate in piazza nella vostra città. L’Aism vi aspetta anche lì con le gardenie.

La narrazione di una città speciale

pz1Da qualche giorno il Guardian ha inaugurato Cities, un sito  supportato dalla fondazione Rockefeller, che si occupa delle città da prospettive diverse: urbanistica, dei servizi, culturale, tecnologica.

Metropoli o area periferica, l’idea è quella di indagare la realtà in cui il cittadino si trova ad abitare.

Per inaugurare questo spazio Mike Herad ha chiesto ai lettori di descrivere che cosa rende speciale la propria città. La chiamata collettiva alla riflessione su luoghi così diversi  – metropoli o borghi delle periferie più lontane – ha prodotto un risultato interessante.

I lettori non hanno negato i problemi che attanagliano le città in cui vivono, dai più comuni disagi di traffico alla violenza che esplode nei quartieri crocevia del traffico di droga. Ma le descrizioni, nella maggior parte dei casi, si sono concentrate sul buono che c’è: The best bits of your cities – what you told us.

Complice forse anche il tipo di call declinata in modo positivo – che cosa rende speciale la tua città? -, i lettori hanno messo l’attenzione su pezzetti della quotidianità urbana che sono opportunità o su quello che rende unico l’abitare un determinato luogo.

Senza rinuncia allo sguardo critico, soprattutto in realtà piegate da violenza e povertà, i lettori hanno costruito il racconto del posto che chiamano casa con l’entusiasmo tipico della scoperta.

È lo sguardo dello straniero sulla città in cui viviamo. Ed è uno dei migliori consigli che abbia ricevuto a proposito dell’essere giornalista locale (l’altro è non smettere di starci male).

Significa piuttosto capire che l’impatto con una città sta nel racconto che la comunità ne fa. Con una responsabilità più forte da parte di quanti sono chiamati quotidianamente a un ruolo in quella narrazione. Potrebbe essere essere costruita parlando di innovazione, crescita, opportunità.

Lo spiegava Giuseppe in un pezzo pubblicato sul Quotidiano della Basilicata: «Noi non abitiamo la città, abitiamo il racconto della città. Un racconto di cui noi stessi, per primi, siamo coautori. Se continuiamo a raccontarci senza speranza, non costruiremo mai speranza.»

Anche a Potenza, città di area laterale, si possono fare cose belle.  «Basta immettere idee, pensiero, abituarci al confronto con il diverso, a guardare le cose in maniera differente.»

Tra l’altro, il digitale e Internet hanno anche abbattuto l’alibi dell’isolamento culturale a cui la periferia era destinata.

L’articolo di Giuseppe arriva dopo la diffusione di un dato che a Potenza ha fatto rumore. Secondo una ricerca dell’istituto Erich Fromm di Prato, in base ad alcuni indicatori sulla vivibilità urbana, la Provincia di Potenza sarebbe la più infelice. Risultato che in città è stato ripreso, criticato, commentato, rilanciato.  Giuseppe, invece, ha scelto di rispondere con racconto diverso, da “straniero”: Quello che i potentini non vedono.

Potenza sta sempre lì, in ogni riga. Ma il pezzo spiega un metodo generale.

La cosa più interessante, però, è accaduta dopo. In meno di 12 ore il pezzo ha fatto migliaia di condivisioni, numeri importanti, forse persino inaspettati, per una realtà piccola come quella potentina. È comparso sulle bacheche di centinaia di cittadini, ha alimentato commenti, costruito dibattito.

A me è sembrato che la città abbia davvero voglia di un racconto nuovo.

Non significa nascondersi le cose, ma «allargare l’orizzonte, guardarsi da fuori».

La comunità ha voglia di partecipare nel costruire questa narrazione. Ed è questa una delle lezioni che tocca a noi giornalisti.

Anche perché una volta aperto il fronte, poi la città sorprende.  E magari capita che il flusso di positività messo in moto si allarghi in mille modi. Compresa una pagina Facebook che spiega, dentro e fuori Potenza, come qui, in fondo, siamo anche un po’ felici.