
Qualche settimana fa mi è capitato di trascorrere del tempo con alcune donne durante la loro chemioterapia. L’esperienza mi ha lasciata carica di dolore, e non per la sofferenza della cura a cui si stavano sottoponendo, non solo almeno. È la storia che hanno condiviso ad avermi stordita.
Ci arrivo per contingenza. Io sono anemica, in modo imbarazzante. Ogni tanto mi capita che certi valori raggiungano quote “fuori standard” al punto da aver bisogno di cicli di infusione di ferro. Non è un problema grave, si affronta, si risolve, ma va tenuto a bada.
Lo scorso autunno ho chiesto una visita di controllo all’ospedale San Carlo di Potenza ma c’era disponibilità dopo un anno. Con i valori ormai al limite, ho accettato di spostarmi a pochi chilometri, all’ospedale IRCCS Crob di Rionero in Vulture. È un ospedale oncologico, centro di ricerca e punto di riferimento per le malattie ematiche, non solo in Basilicata.
Sul momento mi è sembrato ingiusto che un caso semplice come il mio dovesse caricare il lavoro di un centro oncologico, votato a ben altre difficili problematiche. Insomma, anche solo pensare che l’infermiera avrebbe dovuto impegnare un paio di ore del suo turno su di me, mentre la sala era piena di donne alle prese con terapie difficilissime, mi ha procurato un profondo senso di inadeguatezza.
Continuo a credere che sia un errore per il San Carlo non esercitare un ruolo centrale nell’accesso alle cure di ogni livello e caricare i casi generici su una struttura specializzata, ma questa è una altra storia.
Questa premessa mi serve solo per ribadire di aver incontrato professionisti e professioniste di alto profilo e di aver potuto fare un’esperienza per cui sono grata. E che oggi, poiché è la giornata internazionale per i diritti delle donne, credo abbia senso condividere.
Il giorno dell’infusione di ferro, in una stanza al terzo piano del Crob, eravamo in quattro. Le altre tre pazienti credo abbiano percepito il mio imbarazzo, forse per questo mi hanno dato subito corda, chiedendomi di cose semplici, lavoro, casa, famiglia, serie TV.
E di cose semplici, ma aggrovigliate alla cura e al cancro che loro tre stavano fronteggiando, abbiamo discusso nelle successive ore, semisdraiate su una poltrona arancione, attaccate a vari tubicini.
Stefania (non si chiama Stefania) ha circa 45 anni, sta affrontando la recidiva di un linfoma. «Anche io sono anemica, è per questo che all’inizio non davo peso all’affanno e alla stanchezza cronica. Solo che poi è diventato sempre più difficile fare persino un paio di scale e dentro di me ho capito che l’anemia non c’entrava. Ma che vuoi, c’era il lavoro (collaboratrice domestica presso alcune famiglie), non è che potevo prendere malattia per gli accertamenti, in realtà non ho neanche chiesto. Ho continuato a tirare avanti, a badare alle case degli altri, alla mia, ai miei genitori. Poi un giorno sono svenuta e da lì alla prima terapia è stato un attimo».
Angela (non si chiama Angela) credo abbia da poco superato i 50. Marito e due figli, con la pandemia la stanchezza è diventata doppia. «È che a volte mi viene da piangere, torno a casa dopo la chemioterapia e vorrei buttarmi sul letto per i dolori, invece la cena non è ancora pronta». Anche Angela è arrivata alla diagnosi almeno un anno e mezzo dopo i primi sintomi importanti: perché se stai dietro al lavoro, alla casa, ai figli, al marito non riesci proprio più a trovare il tempo. E forse neanche lo cerchi.
Daniela (non si chiama Daniela) anche quel giorno aveva guidato in auto per 180 chilometri, 2 ore e mezza di strade statali e provinciali, per poi farne altrettanti al ritorno, dopo la terapia, per tre volte a settimana, per diverse settimane. Durante la chemioterapia credo abbia risposto almeno cinque volte al telefono spiegando dove fossero cose in casa, che cosa ci fosse da comprare e a che ora qualcuno avesse l’appuntamento dal dentista.
A fine mattinata l’infermiera mi ha staccato dalla flebo di ferro, pronta e forte a tornare a casa, e io mi sono fatta minuscola in quella stanza dove le altre tre stavano affrontando una salita ripidissima. Mi sono sentita di colpo pesante, ma anche grata.
Perché ce lo diciamo da anni, vediamo queste donne, le abbiamo accanto e in famiglia, quando non siamo proprio noi. Ma siamo sempre in tempo per ripetercelo, ricordarcelo e arrabbiarci.
Ogni ambito della vita pubblica e privata ci chiede uno sforzo aggiuntivo, come se fosse normale dover colmare così lacune e vuoti.
Se non bastassero le dichiarazioni d’intenti, puntuali arrivano i dati a ricordarcelo.
Solo pochi giorni fa l’Istat ricordava che il calo occupazionale collegato alla pandemia nel solo dicembre 2020 è stato pari a 101mila persone, di cui 99mila donne. Sempre per le donne è calato il tasso di occupazione ed è cresciuto quello di inattività̀.
Il rapporto “Nidi e servizi educativi per l’infanzia, stato dell’arte, criticità e sviluppi del sistema educativo integrato”, stilato dal dipartimento per le Politiche della Famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Istat e l’Università Ca’ Foscari Venezia, ricorda che nelle regioni meridionali i posti disponibili nei nidi e nei servizi integrativi pubblici e privati non raggiungono mediamente il 15% del potenziale bacino di utenza. Rispetto al parametro del 33% fissato dall’Unione Europea già nel 2002, la Basilicata, per esempio, si ferma al 14,3%.
Sul versante sanitario, il discorso coinvolge sia il carico dell’assistenza al paziente, quasi sempre in capo alle donne, sia le politiche di accesso a diagnosi e cura.
Abbiamo ormai imparato che contro il cancro il tempo è un fattore decisivo. Uno studio dello scorso ottobre, coordinato dalla Queen’s University di Kingston in Canada, ha quantificato la relazione tra il ritardo del primo trattamento e l’aumento del rischio di mortalità nei tumori più comuni. Un ritardo di otto settimane nella chirurgia del cancro al seno, per esempio, aumenta il rischio del 17%, un ritardo di 12 settimane porta il rischio al 26%. Lo studio ha assunto un valore fondamentale in questo tempo di pandemia, durante il quale le attività di prevenzione, diagnosi e trattamento hanno subito lunghe sospensioni, spesso ingiustificate.
Per le donne, tuttavia, quelle sospensioni si sono spesso aggiunte al tempo perso per effetto del carico di lavoro e del carico mentale che si chiede loro di sostenere nella quotidianità.
Di quando sai che qualcosa non va, ma rinvii perché il tempo fai fatica a trovarlo. O forse pensi di non averne diritto.
Foto di Mylene2401 da Pixabay