Nello studio vuoto l’aria ormai si è rarefatta | La città delle donne #1

Lo studio dell'avvocata è diventato un luogo vuoto e troppo silenzioso durante questa emergenza di COVID-19

«No, non riesco a concentrarmi, non lavoro molto». Il problema, racconta Angela Pignatari, è quell’aria rarefatta di cui si è impregnato lo studio. Sullo stesso pianerottolo di casa, «sono fortunata». Ma le disposizioni di sicurezza per rispondere alla pandemia di nuovo coronavirus tengono lontani i colleghi, il segretario, i praticanti. 

Angela Pignatari

Avvocata specializzata in diritto penale, Angela ha visto come tutti il lavoro rallentare e la giornata modificarsi. Dall’emanazione da parte del Governo delle disposizioni di sicurezza, con la sospensione della maggior parte delle attività giudiziarie pubbliche, non è ancora tornata in tribunale, probabilmente le toccherà passarci la prossima settimana. «Se le cose non cambiano».

In questa sospensione, nonostante il trattamento dei casi urgenti sia garantito, ci sono persone, magari sottoposte a misura cautelare, che vorrebbero avere una risposta, ma non possono ottenerla, se non con una tempistica molto rallentata. All’interno di una macchina giudiziaria che si mostrava lenta e ingolfata già prima dell’emergenza coronavirus.

«Già dopo il primo DPCM dello scorso 4 marzo ho provato a segnalare, con altri colleghi, la necessità di agire subito con una programmazione dell’attività giudiziaria, per provare a calendarizzare scadenze e impegni urgenti. Ma siamo arrivati allo stop di quasi tutto e temo non saremo pronti alla ripartenza, riprenderemo senza organizzazione».

Come cambia il lavoro? «Quello che pesa è il mancato incontro. Le telefonate d’emergenza e le mail sostitutive ci sono, ma in questo mestiere è l’incontro a essere fondamentale per comprendere il problema e individuare una strada da seguire con la persona che ti si affida. È un tipo di risposta che non si può offrire a distanza, che rende la soluzione difficile e aumenta le solitudini di molte persone, spesso già in difficoltà».

E il peso di questa responsabilità per le donne appare un prezzo più alto. «Ci appartiene il tema della cura, della distanza più breve con l’altro, familiare o assistito, con l’individuo di cui farsi carico».

Da una ventina di giorni la pratica quotidiana è cambiata.

«Entro nello studio, ma riesco a sbrigare solo qualche segnalazione o richiesta di emergenza. Per il resto, ogni proposito di approfondimento o di organizzazione del lavoro fatto nei primi giorni è venuto meno. Il contesto incide, agisce sullo stato d’animo e si riflette sul resto».

In una condizione di emergenza era stato necessario lavorare e riorganizzarsi già quarantanni fa, all’indomani del terremoto del 1980. «Ero ancora all’università, ma ricordo perfettamente la disperazione iniziale di mio padre, avvocato anch’egli, che non riusciva a immaginare come fosse possibile ricominciare. Ma durò poco. Persino alcuni processi vennero subito istruiti sotto i porticati degli edifici di rione Parco Aurora. Quello che prevalse era il bisogno di ripartenza, rafforzato dallo stare insieme. Stavamo in gruppi, vivevamo in nuclei familiari allargati, l’emergenza ci aveva uniti attorno alla necessità di ripartire al più presto, e lo aveva fatto tenendoci insieme fisicamente».

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