La famiglia arriva sotto forme che non t’aspetti, non c’è niente da fare.
La mia si è allargata qualche anno fa saltando il confine di un’area della mia città che non avevo mai frequentato e in cui andava avanti una vita di cui non avevo consapevolezza. E pensare che dicevo di conoscere a fondo la città in cui ero giornalista locale, attenta e vorace.
Difficilmente possiamo dire di conoscere a fondo il luogo in cui abitiamo, anche se è piccolo come Potenza e siamo convinti di essere al centro dei flussi informativi che raccontano, più o meno ufficialmente, ciò che accade in città.
Io a questo insegnamento sono arrivata con una storia – quella della comunità di autotrasportatori in cui ogni anno mi godo la compagnia e la capacità di essere famiglia accogliente.

Da cinque anni a Potenza gli amici di Rocco Lauria, il fratello di mio cognato, lo ricordano con un raduno chiassoso, vivace, rumoroso, ma pieno di spazio per chiunque, compresi i bambini. Rocco ancora non era diventato camionista, ma quello era il mestiere che stava inseguendo. Così, in quella famiglia allargata che sono gli autotrasportatori – e credetemi, allargata significa che il sostegno e l’affetto viaggiano senza confini locali, un po’ come certe navi – ci siamo finiti anche noi.
Di quella famiglia faceva parte anche il piccolo Donato Santarsiero, quattro anni appena quando nel 2015 un incidente d’auto in pieno centro urbano se l’è portato via. La città ne fu sconvolta, profondamente.

Durante il memorial questi grandi camion strombazzano e percorrono le vie della città a sirene spiegate. È il modo con cui segnano il passo, è il modo con cui riempiono la città pubblica della propria esistenza.
Il loro mestiere è uno di quelli che pochi visualizzano e inseriscono tra quelli necessari alla nostra esistenza. Ma la verità è che quei bestioni portano da un capo all’altro del Paese tutto quello di cui oggi non possiamo fare a meno. E le sirene, la preghiera, la coreografia inaspettata con cui i camion si sistemano in cerchio, bloccando il traffico e occupando la strada, e poggiando un mazzo di fiori per ricordare chi non c’è più, non sono altro che il modo di recuperare la memoria dello sgomento che qualche anno fa unì nel dolore la città, e andare avanti.

Una postilla me la concedo, proprio perché in questa famiglia ci sono cascata dentro. E so di essere di parte.
Ogni anno il memorial fa i conti con alcune polemiche sul rumore e il disturbo che le sirene producono agli abitanti del rione, Poggio Tre Galli, in cui si svolge l’evento. Non voglio sminuire il fastidio percepito dagli abitanti del quartiere, ne sono consapevole.
Immagino siano simili al disagio che accompagna altre manifestazioni – penso al festival di fuochi d’artificio di contrada San Luca Branca, ai blocchi del traffico quando il Potenza Calcio fa scintille in campo, al centro storico nei giorni del nostro Santo Patrono, quando musica, comitive e cibo fino a notte fonda ci ricordano che questa città è ancora piena di persone.
Ma ricordo a me stessa che dura il tempo di un saluto, di un lungo e caldo sabato d’estate, come altre manifestazioni che abitano gli altrove di questa città. E che mi ricordano di che cosa è fatta, che c’è una città di cui non si parla spesso, o forse solo poco evidente (almeno negli altri giorni dell’anno), sana, che lavora, vive e condivide tempo e spazio a chiunque abbia voglia di frequentarla, magari a sirene spiegate.