Da alcune settimane mi porto in testa un libro: IL NUOVO CORSO, di Mario Pomilio. Erano gli anni Cinquanta, sul finire, e i fatti a cui si ispira sono quelli dell’Ungheria. Decenni dopo è una storia contemporanea e attuale. È una storia che tutti i giornalisti dovrebbero leggere.
In una sola città di una nazione controllata da un regime totalitario arriva in edicola un’edizione de “La verità” (!), l’organo di stampa nazionale – l’unico in circolazione, che annuncia l’avvento della libertà. Ciò che accade in seguito riguarda la scoperta di responsabilità, diritti, possibilità. Con l’improvvisa delusione quando la comunità locale dovrà affrontare la falsità di quella notizia – bufala o fakenews, per stare sulla contemporaneità – che ha ormai modificato comportamenti e aspettative dei cittadini.
Scritto in tempi decisamente ante-digitale e pre-rete, leggere oggi questo romanzo aiuta a ricordare che ci sono comportamenti a cui un giornalista (più di chiunque altro abbia l’opportunità o il diritto-dovere di diffondere informazioni) deve prestare attenzione. Non è un problema di internet o di reti sociali, è un problema di responsabilità, più semplicemente di scelta.
Sono solo ventiquattro le ore di “nuovo corso” di cui disporrà la città, trascinata dal giornalaio Basilio, primo inconsapevole diffusore/venditore della falsa libertà restituita. Ma vanno lette, utili come sono a ripassare alcuni fondamentali.
- Ci sono fonti e mezzi che valgono di più, che hanno un peso specifico maggiore, per autorevolezza acquisita o indotta, per affezione o per ruolo. E se la notizia falsa arriva da queste fonti, contrapporre una visione alternativa è un processo faticoso e a rischio fallimento. Ma se da qualche parte bisogna cominciare, meglio dai dati che dall’indignazione.
«Un annunzio, per quanto imprevedibile, strano, distante da tutto ciò che era lecito sperare o aspettarsi, appena fosse apparso su un quotidiano che era ormai il veicolo ufficiale delle notizie e delle idee, sarebbe stato accettato immediatamente come una verità: che nessuno avrebbe osato dubitarne o pensare a un errore, nessuno discuterla, rifiutarla, negarla.»
- L’informazione è alla base di ogni processo democratico. Il giornalismo serve a questo Paese come prima, come il pane.
«(…) vendere giornali non era, no, come vendere pane o scarpe, perché, sì, questi servono per vivere , ma quelli servono per avere delle idee, e con delle idee si fanno i vestiti e le scarpe, ma con le scarpe non si fanno le idee.»
- Il giornalismo dovrebbe servire a ricordarci se e come siamo liberi.
«E cercava di spiegare che la libertà, quella vera, non serve solo per godersela e per dire: Sono libero, ma anche per fabbricare le case e le officine, o meglio, le idee in base alle quali costruirle, quelle case, i criteri secondo i quali farle funzionare, quelle officine, e farci star bene chi ci lavora dentro: e se nascono idee, ecco che le idee cambiano il mondo, e non c’è nessun pericolo che il mondo possa arrestarsi. E neppure si fa vecchia, secca e vizza, la libertà, ma siamo noi che ci facciamo vecchi, a poco a poco, accanto ad essa, e appena lei se ne accorge di botto ci abbandona e va a unirsi con chi ha il cuore giovane per amarla.»
- Ai giornalisti capita spesso di avere la responsabilità di vite tra le mani. Le parole hanno un peso, e su quelle vite cadono sempre con un peso maggiore della forza impressa in partenza. Il punto è che pesano anche le parole non dette.
«E il direttore rimase all’improvviso sgomento d’aver potuto per il passato sottovalutare così facilmente simili nodi d’affetto, ignorare quante altre vite d’un colpo si spezzavano, come rami al cadere di un albero, al cader di una vita; sbrigarsela, di fronte a se stesso, col dire: Ho fatto il mio dovere.»