
Questo articolo ha avuto una gestazione lunga e articolata, molto più di quanto previsto. Doveva essere il primo della serie dedicata a come la pandemia ha impattato, modificandola, sulla vita delle donne. Avevo deciso di partire dalle giornaliste che nella mia città si erano ritrovate alle prese con l’epidemia di COVID-19: da gestire nel privato e da raccontare nel pubblico. Partire da loro mi era sembrata una scelta naturale, a metà tra la solidarietà e l’omaggio. Poi, mentre scrivevo e raccoglievo alcune testimonianze, ho capito che non avrebbe avuto molto senso proseguire questo documento senza contestualizzarlo in quello che stava accadendo attorno, e per cui la pandemia si era rivelata solo un’ulteriore spinta. La peggiore crisi dell’editoria degli ultimi decenni proprio nella mia città stava brutalmente mettendo in mostra vecchie e nuove fragilità del settore. Ho fatto allora l’unica cosa possibile perché questa piccola indagine nelle vite da emergenza avesse un senso, ho chiesto ad alcune di queste colleghe di ampliare il ragionamento per condividere un altro pezzetto di contesto, dell’essere giornaliste, in una città di periferia, in questo tempo.
Nelle prime settimane di lockdown Diana Fichera è stata la giornalista da cui la comunità attendeva gli aggiornamenti sullo stato dell’epidemia in Basilicata. Per giorni ha gestito per la TGR RAI Basilicata l’appuntamento informativo con il bollettino epidemiologico e le notizie sull’emergenza dall’Ospedale San Carlo di Potenza. Generalmente impegnata all’interno della macchina del tg, si è trovata a lavorare per lunghe settimane lontana dalla redazione, in esterna.

Erano i primi giorni delle misure anti-covid, con le strade svuotate, le scuole chiuse e tutta la regione sintonizzata coi telegiornali delle 14:00 e delle 19:35, uno share altissimo.
Il distanziamento fisico era da poco diventato un obbligo, e il lavoro era improvvisamente cambiato. «Prescrizioni da rispettare, alcuni problemi tecnici all’inizio, i dispositivi di protezione. Forse il lavoro è più impacciato – ha spiegato –, ma è un cambiamento da affrontare, nulla di insuperabile». In quei primi giorni di pandemia – sembra trascorsa un’epoca – sembrava un’impresa riuscire ad avere un quadro chiaro della situazione locale, tra il caos delle fonti istituzionali e la bulimia di notizie, più o meno veritiere, che sul territorio si inseguivano tra bacheche online e chat di messaggistica.
«La verifica delle fonti rimane la più solida e forte delle regole del nostro lavoro. In un simile momento lo sforzo deve essere ancora maggiore, dobbiamo incrociare fonti, moltiplicare le verifiche. Parliamo di salute pubblica, di ricadute sui comportamenti collettivi, sbagliare su un tema simile è forse più grave». Come cambia il lavoro? «Non credo sia cambiato il mestiere: gerarchia e pluralismo delle fonti, e poi verificare, verificare, verificare». Allora come è cambiato il pubblico? «Mi hanno scritto in tanti, usando magari Facebook, hanno cercato un contatto, hanno ringraziato, hanno chiesto aggiornamenti. Mai come in un momento di emergenza, le persone hanno sentito il bisogno di serietà nell’informazione».
All’improvviso, ha raccontato Mara Risola, giornalista del quotidiano La Nuova del Sud e del telegiornale dell’emittente La Nuova TV, l’epidemia di Covid-19 ha cambiato ogni cosa, anche in redazione. «Il lavoro di una redazione è basato sul continuo confronto di idee, sul dibattito incessante. A distanza, da casa, nonostante lo sforzo costante di trovare spunti e sollecitazioni da sviluppare, è difficile approfondire il ragionamento». Senza contare i problemi del sovraccarico sulla rete a cui lo smartworking ha abituato tutti nei primi tempi di lockdown.

Tutto chiuso, la circolazione limitata, comunicazioni solo via chat e telefono. «Il cambiamento più importante è stato dover raccogliere le notizie senza poter andare a cercarle sul posto». Per Mara, brava cronista politica, abituata alle domande “fuori sacco” in contesti pubblici, si è trattato di ridisegnare l’approccio alle fonti e alla scrittura. «L’intero timone (lo schema che funziona come indice di un giornale e distribuisce gli argomenti nelle varie pagine, ndr) ruotava attorno a un solo input: come la politica reagisce al coronavirus, come la cultura si ripensa per il coronavirus, come lo sport affronterà il coronavirus. Arrivano i comunicati, le note ufficiali, possiamo raccogliere qualche dichiarazione online affidata ai socialnetwork. Ma la verità è che noi serviamo per scardinare i meccanismi basati sulla retorica. Noi serviamo a questo, a capire che cosa c’è dietro tante belle parole, al fondo vuote».
A proposito di parole, quelle dei bollettini epidemiologici delle task-force dell’emergenza si sono susseguite per diverse settimane un paio di volte al giorno: poche frasi e molte cifre per tracciare il quadro del contagio in Basilicata. «Sono stata male, ammetto. Sono empatica, leggere quelle notizie mi ha creato dolore».
In una comunità piccola capita che il giornalista conosca bene le storie di cui si trova a raccontare risvolti drammatici. È il giornalismo locale.
«La parte più difficile – ha aggiunto Anna Martino, freelance con collaborazioni nella cronaca e negli uffici stampa – è stato il flusso continuo. Era impossibile fermarsi a riflettere, avere il tempo per approfondire. L’attenzione spasmodica richiesta ai numeri, ai casi, alle storie ha modificato profondamente anche il modo di dover osservare quello che accadeva attorno».

Tra social network e chat «ho notato un’abnorme ricerca di conferme e dettagli su chi era stato contagiato, chi era stato a contatto con chi. Contemporaneamente, però, ho notato anche una maggiore attitudine a cercare, nei limiti del possibile, fonti di informazione corretta e autorevole. Online è possibile raccontare storie che con format tradizionali troverebbero poco spazio, e questo aiuta nell’andare oltre la finestra sulle vite degli altri. Ma è importante anche capire che cosa cerca la comunità di lettori. Se all’inizio era importante conoscere l’andamento dell’epidemia, poi le famiglie hanno preteso risposte sul “dopo”».
Essere una giornalista freelance nei giorni della pandemia ha significato un confronto costante con il tempo: «Da un lato serve la velocità, la risposta immediata, ma dall’altro la precisione è fondamentale. Un numero sbagliato, se quel numero riguarda magari i tamponi processati o le vittime, fa la differenza. Si lavora a ciclo continuo, con più ansia, più stanchezza, e più preoccupazione. È stato impossibile sconnettersi».
Ma in piena fase 3 le cose non sono poi molto diverse. «Essere giornalista freelance a partita IVA è difficile a prescindere. L’equo-compenso non è quasi mai applicato, e per raggiungere un’entrata mensile dignitosa bisogna necessariamente svolgere più incarichi contemporaneamente, il più delle volte a discapito della qualità». E poi c’è il tema dell’autonomia. «È un concetto, per così dire, relativo. Per quanto sia specificato dalla norma, è letteralmente impossibile rispondere “oggi sono fuori città, non posso seguire la notizia o redigere questo comunicato stampa”. Alla seconda risposta simile, troverebbero un sostituto. Essere freelance ha a che fare con un dato fiscale, ma la verità è che sono soggetta ugualmente a orari e regole non formalizzate».
Per una donna il problema è doppio: riguarda il futuro. «Vivo sempre in tensione, anche dal punto di vista emotivo, non vi è certezza del domani. Poi, certo, dobbiamo cambiare, ripensarci, reinventarci, ma fino a quando? E per quanto? Ci sono momenti in cui non basta. Al momento non ho una famiglia, ma se ci penso so che dovrei rivedere completamente la giornata lavorativa. Il che significa rinunciare ad almeno la metà degli incarichi e, dunque, a una cifra “decente” per la sopravvivenza. E alle mie ambizioni».
Cinzia Grenci è vicecaporedattrice della TGR Basilicata, tra le poche donne al vertice nelle redazioni italiane. «In RAI, va detto, siamo più tutelate da questo punto di vista, perché da tempo l’azienda sta affrontando il superamento del divario di genere».

Che cosa ha voluto dire la responsabilità di coordinamento nella fase acuta dell’emergenza pandemica? «È cambiato il modo di immaginare il telegiornale. Questa emergenza ci ha messo di fronte a bisogni e necessità prima sconosciuti, a volte sottovalutati, o semplicemente improvvisamente diventati prioritari». Le difficoltà logistiche – distanziamento, luoghi pubblici inaccessibili, squadre meno numerose, sicurezza dei colleghi – hanno reso necessarie «modalità nuove che dovremmo continuare ad esplorare.»
Le redazioni sono microcosmi fatti di persone. «Abbiamo affrontato una pressione psicologica notevole, si scattava più facilmente, eravamo tutti più esposti a paure e preoccupazioni». Con la pressione dell’essere un punto di riferimento. «Il nostro è un telegiornale molto seguito e in momenti di difficoltà collettiva, la responsabilità non può che aumentare».
In quei giorni come immaginava saremmo usciti dalla crisi? «Sono un po’ pessimista, credo sia stato solo un tempo sospeso che ci auguravamo ci avrebbe insegnato qualcosa, ma in poco siamo tornati al punto di partenza, riprendendo la vita con i suoi limiti».
Nel frattempo gli effetti dell’emergenza sanitaria emergono sul fronte economico, anche nell’editoria. «In un simile momento di crisi, diventa centrale l’informazione del servizio pubblico che deve essere anche da stimolo. Non a caso nella nostra trasmissione mattutina di “Buongiorno Regione” ci soffermiamo a lungo sulla rassegna stampa dei quotidiani locali, invitando ad acquistare i giornali, consapevoli di quanto ogni voce sia necessaria sul territorio».
Quella della TGR RAI in Basilicata è una delle redazioni in cui le donne sono una presenza rilevante, per numero e incarichi. Ma in generale, anche il giornalismo, come gli altri settori della vita pubblica propone un divario di genere importante. E la Basilicata non fa eccezione, con due sole donne a guidare da direttrici una testata, Giusi Cavallo per Basilicata24.it e Maria Fedota per l’edizione lucana delle Cronache del Mezzogiorno.
Eccezione è anche quella di Antonella Inciso, a lungo unica donna nel CDR (l’organismo sindacale rappresentativo della redazione, ndr) della Gazzetta del Mezzogiorno. «Nonostante i diritti conquistati dalle lotte del passato, la strada da fare è ancora lunga. Femminismo oggi significa saper fare rete; credo che la conquista oggi abbia a che fare con il cambio radicale di mentalità, non con l’imposizione tramite norma». Come per esempio quando nelle riunioni sindacali a distanza, in tempi di emergenza covid, se il collegamento non si avvia è “perché il gestore nel vedere la bella collega si è emozionato”. «Se fosse capitato a un uomo non ci sarebbe stato spazio per le battute», ma tant’è.

Donne in editoria e la fatica. Doppia, quella del districarsi nella crisi, nell’averne consapevolezza «abituate a gestire famiglia, casa, lavoro, conti, figli. Il peso – ha aggiunto – lo sentiamo tutto, compreso il carico dei colleghi che rappresentiamo ai tavoli della vertenza».
L’editoria è in crisi, «ma mai come oggi le persone chiedono informazione veritiera, corretta, di qualità. Forse dovremmo riflettere su come fornirla, su come dare gli strumenti al cittadino per distinguere quella qualità, a garanzia del sistema democratico. È questa la battaglia che salverà le nostre testate e le redazioni».
Il cambiamento nelle abitudini di consumo dell’informazione – più mobile, più socialnetwork – è una sfida, un indirizzo. «Sta anche a noi individuare nuove chiavi di lettura, comprendere quali sono i bisogni dei nostri lettori, quali le domande da soddisfare». Con un suggerimento per azioni di sostegno istituzionale. «Per esempio – ha proposto – la Regione potrebbe farsi carico dell’acquisto dei quotidiani locali per i bar del territorio».
Strascichi da pandemia nella quotidianità lavorativa? «In quei giorni la vita è stata stravolta, gli orari, la presenza a casa, cercare di conciliare i miei tempi con quelli di mia figlia Giulia, per non lasciare che vivesse troppo da sola questo tempo strano anche dal punto di vista emotivo. Ma se devo dirla tutta, sul fronte della ricerca delle notizie, l’impossibilità di recarmi nelle sedi istituzionali non è stato un limite, non un limite nuovo almeno. Da mesi, per esempio, in Basilicata i giornalisti non possono accedere alle sedi del consiglio regionale se non compilando un modulo con il nome della persona con cui vanno a confrontarsi. Ecco, è un pezzo della crisi oggi: un tentativo sotterraneo di mettere il bavaglio all’informazione è in corso da tempo, e non ha a che fare con il coronavirus».
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