
«Quando mi capita il turno di mattina, dopo giorni di misure restrittive, ancora mi sconvolge il silenzio assordante che c’è fuori, nell’ora che in genere è quella del traffico e del caos».
A. fa la stessa strada da tanti anni, da casa al supermercato, e viceversa. Tutti i giorni, la domenica a settimane alterne. Dipendeva dai turni.
Adesso le cose sono cambiate, gli orari di lavoro e i tempi della vita anche.
«Stiamo lavorando da diverse settimane cercando di mantenere un senso di normalità, tra noi e per i clienti».
In una città come Potenza, capoluogo di regione sì, ma con le dimensioni di un medio centro periferico, anche il supermercato acquista spesso i toni della bottega di rione.
«Non so come descrivere la paura costante. Forse con il senso di vuoto improvviso che mi assale, ogni tanto, senza preavviso, tra gli scaffali, o mentre prendo posto in cassa. Abituati come siamo al saluto affettuoso, da anni condividiamo ore, chiacchiere, problemi. Soprattutto tra noi colleghe. Siamo quasi tutte donne, madri e giovani. Ora ci allontaniamo appena una accenna involontariamente un passo in avanti, un po’ per paura un po’ per istinto. Viene da piangere».
La vita in un supermercato, per chi ci lavora, non è più una cosa ordinaria. Per giorni, dall’avvio delle misure restrittive per l’epidemia di COVID-19, A. e le colleghe hanno lavorato senza i dispositivi di protezione, guanti sì, ma nessuna mascherina. Ora va meglio, ma l’attenzione personale non sempre è sufficiente.
«Proviamo a controllare il flusso, a gestire gli ingressi per evitare la calca. Ma non è facile far rispettare le misure. C’è chi si accalca, chi protesta, il nervosismo è costante, c’è chi torna continuamente per comprare un solo pezzo, le persone scattano per un nonnulla. Viviamo e lavoriamo con un’enorme paura addosso, nella tensione continua, come se fosse uno strato di polvere appiccicaticcia sulla pelle».
A fine turno, verso casa.
«Appena entro devo scostare mia figlia, che vorrebbe solo saltarmi al collo, devo allontanarla. Come glielo spiego? Come dare senso all’idea che la distanza è un modo per provare a salvarci?»
Come tutte le lavoratrici dei servizi essenziali, la paura è quella di vivere quotidianamente a un passo dal contagio, e di portarlo a casa.
«E come faccio a tenere bloccato mio figlio che è un adolescente e vorrebbe solo sfogarsi, avere un momento in cui non sentirsi costretto in uno spazio piccolo. Loro capiscono, è chiaro, sono responsabili. Però lo vedo che soffrono, che stanno perdendo delle occasioni di gioia».
Una vita comune, di abitudini piccole. Sembra una vita fa.
«Mi prendo il resto che arriva, la cena tutti insieme, per esempio. Nessuno scappa più, li trovo tutti a casa. Condividiamo una nuova ritualità, e questo mi aiuta a restare in piedi. E nelle giornate più dure, quando arrivo a sera davvero spaventata, quando penso che una volta finita l’emergenza saremo in un mondo peggiore, con il mio compagno ci siamo dati una strategia: chiudiamo la TV e giochiamo a carte».
Foto di Jeremy Smith da Pixabay