Gli spazi che (non) spettano alla politica nella Commissione pari opportunità | La città delle donne #16

La sentenza con cui il Tar di Basilicata ha annullato le quattro nomine provenienti dal mondo associativo per la Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna (CRPO) dice diverse cose importanti.

Il collegio del Tribunale amministrativo regionale ricorda che, pur ammessa per ruolo e norma, la discrezionalità nelle nomine del presidente del Consiglio regionale non può scavalcare i confini indicati dalla legge.

I giudici amministrativi hanno infatti accolto il ricorso proposto dall’Arci Basilicata e dall’avvocata Morena Rapolla, rappresentati dall’avvocato Donatello Genovese, perché quelle quattro nomine alcune non hanno rispettato il criterio di rappresentatività (per le commissarie designate dalle associazioni Senior Italia Federanziani, International Inner Wheel e CIF Centro Italiano Femminile) e in un caso quello della pertinenza rispetto alla missione associativa (per la commissaria designata da Amici del Cuore, associazione che opera in ambito socio-sanitario).

La sentenza sottolinea che i requisiti previsti dalla legge «costituiscono un vincolo (al contempo autonomo ed eteronomo) dal quale la discrezionalità di scelta non può evidentemente prescindere».

Del resto sia la legge istitutiva della CRPO sia il bando per le nomine stabiliscono che gli obiettivi per cui la Commissione è stata pensata rendono fondamentale che le componenti siano rappresentative di ampie porzioni del territorio e conoscano a fondo le problematiche che ostacolano la crescita libera delle donne. Anzi, la legge istitutiva è persino più restrittiva, chiedendo che le nomine in quota società civile arrivino da “associazioni di donne”, dicitura che il bando ammorbidisce in “associazioni che abbiano tra le finalità statutarie quella di perseguire la crescita culturale, politica e sociale della donna”.

Fin qui il diritto.

Quello che resta è il non detto, non in sentenza almeno. Ma che grazie a questa sentenza forse vale la pena ricordare.

Le donne che compongono la CPRO sono 21. Di queste, 6 vengono scelte dal Consiglio regionale secondo un previsto meccanismo di mediazione e rappresentanza politica. Dunque la politica ha già la propria quota di influenza e determinazione degli equilibri della commissione.

Quando, nel 1991, la legge sulla CRPO venne approvata, nel pieno di una stagione di rinnovato dibattito sulla presenza delle donne nei luoghi della costruzione delle politiche, la scelta di inserire il mondo associativo non fu certo casuale. Rispondeva all’esigenza di una voce ampia e credibile nell’affrontare le difficoltà, il disagio, gli ostacoli all’autodeterminazione e alla messa in pratica dei diritti della donna in Basilicata. Regione, vale la pena ricordarlo, che la Commissione Europea ancora oggi indica tra le dieci nell’intera UE con la minore percentuale di donne lavoratrici.

Il legislatore non ha negato alla politica regionale un’area di legittima rappresentatività o di influenza.

Aveva solo previsto uno spazio minimo dell’organismo in cui alle donne della società lucana fosse risparmiata anche l’ingerenza.

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay

La tutela dei minorenni in periodo di pandemia | La città delle donne #15

Valeria Montaruli è la presidente del Tribunale per i Minorenni di Potenza. Le è toccato gestire l’emergenza e coordinare le nuove forme di operatività nella struttura più delicata del comparto giustizia, quella che ha in carico il benessere e la salute dei più piccoli.

Valeria Montaruli

«Non era immaginabile dover cambiare così repentinamente la nostra organizzazione. Ma è successo e abbiamo dovuto reagire e ripensare il nostro lavoro». A dettare l’indirizzo sono state le disposizioni governative, a partire dal primo decreto legge in materia, il n° 11/2020, fino al “Cura Italia”, di recente convertito in legge. Tutta la prima parte dell’emergenza da COVID-19 ha imposto lo stop all’attività differibile, con operatività solo sull’attività urgente, che per il Tribunale per i Minorenni non è di poco conto: procedure di adottabilità, minori stranieri non accompagnati e tutti gli altri casi in cui emerge «un grave pregiudizio per il minore».

In questi casi sono stati adottati protocolli di sicurezza e misure alternative. L’accesso agli uffici è stato ridotto al minimo, e comunque verificato tramite misurazione della temperatura.  A tutti è stata estesa la richiesta di inviare istanze via mail o chiedere informazioni prima via telefono. Il Ministero di Giustizia ha messo a disposizione alcune piattaforme per svolgere in remoto le camere di consiglio e le udienze. È stato inoltre sottoscritto un protocollo con l’Avvocatura del Distretto per svolgere attività di ascolto dagli studi degli avvocati.

Anche i minori nelle comunità hanno vissuto improvvisi cambiamenti con la sospensione degli incontri protetti e del rientro in famiglia. «Abbiamo cercato di attenuare il disagio promuovendo un più frequente contatto tramite telefonate o videochiamate. Così come stiamo cercando di organizzare attività a distanza per via telematica per i minori messi alla prova o i minori stranieri non accompagnati, cercando di offrire loro spazi di confronto, seppur inusuali».

Anche la rete dei servizi territoriali ha subito un rallentamento. «Il Tribunale per i Minorenni lavora sempre in stretta sinergia con i servizi sociali, consultoriali e sanitari. Una rete preziosa che però già normalmente, con tutti i tagli subiti negli anni, non riesce a rispondere a tutto il disagio esistente. È evidente che questa emergenza, nonostante gli sforzi di chi opera sul territorio, avrà delle ricadute».

Quantificarne gli effetti, però, oggi non è possibile. «I dati non sono ancora disponibili, è impossibile ora definire realmente gli effetti della pandemia. L’unico dato attualmente rilevato è l’aumento delle segnalazioni dei casi di violenza intrafamiliare. Ma per un quadro generale servirà tempo. Nel frattempo, noi continuiamo ad operare con l’obiettivo dell’interesse dei minori e delle situazioni più fragili. Il punto è fare in modo che, seppur in emergenza e nel rispetto delle norme di sicurezza, i minori non siano lasciati soli a loro stessi».

Discutere della responsabilità su tutto questo significa, nel caso di Valeria Montaruli, anche aprire una finestra sullo status quo della magistratura in fatto di rappresentanza di genere.

«Nonostante gli sforzi fatti e sempre maggiori passi in avanti, la voce delle donne in posizioni apicali è ancora residuale».

L’indagine diffusa dal CSM a marzo scorso spiega che su 9.787 magistrati presenti in Italia (dato riferito al 29 febbraio 2020), le donne sono 5.308, pari al 54% circa. Anche i nuovi ingressi in magistratura sono donne per oltre la metà. Nel penultimo concorso le donne hanno rappresentato il 63% dei vincitori, nell’ultimo il 57%. Ma osservando la distribuzione per funzione, la presenza delle donne negli incarichi semidirettivi del è del 42,04%, nei direttivi la quota scende al 28,60%.

«Servirà ancora tempo, sono equilibri radicati che non si modificheranno in poco tempo. Ma ho fiducia nelle battaglie che si stanno facendo, e quel gap si attenuerà».

Foto di florentiabuckingham da Pixabay

Per favore, non venite a dirci che dipende del coronavirus | La città delle donne #14

Abbiamo imparato che il tempo è tutto. Fortunatamente ce lo hanno ripetuto in ogni modo: per affrontare il cancro e uscirne vive il tempo è un fattore decisivo. E così abbiamo imparato a fare gli screening, a educare le ragazze alla prevenzione, a ricordarci e a ricordare di prenotare l’ecomammaria che segna lo scarto tra «non abbia paura» e «cavoli si è fatto grande, non se ne era accorta prima?».

Abbiamo imparato che la genetica conta e che bisogna agire in fretta, perché anche il tempo della cura e dei controlli è prezioso.

Oggi mettere in pratica quell’insegnamento (che coincide con il diritto alla salute, vale la pena ricordarlo) è diventato complicato. Colpa della pandemia, ci hanno spiegato: personale spostato sui reparti Covid-19 e cittadini spaventati nel raggiungere gli ospedali per il rischio contagio. Abbiamo aspettato a casa che la fase acuta dell’emergenza terminasse accettando che la contrazione di spazi di libertà a cui eravamo sottoposti fosse un sacrificio necessario in virtù di un bene comune, quello della salute pubblica.

E adesso, a pandemia in discesa, che cosa ne è del nostro diritto alla salute?

L’associazione Vivere Donna ha denunciato l’attesa prolungata per l’intervento di asportazione del carcinoma per diverse pazienti dell’Ospedale San Carlo di Potenza. Tre consigliere comunali di Potenza hanno chiesto al direttore generale della struttura di ripristinare le attività ambulatoriali e chirurgiche legate alla senologia, per adeguare i tempi di risposta alla malattia con quelli che garantiscono un reale diritto alla salute.  

L’andamento della curva epidemiologica, soprattutto in Basilicata, non rende più accettabile utilizzare la pandemia per chiedere pazienza e prendere ulteriore tempo nel ripristinare le prestazioni del servizio sanitario considerate non urgenti. All’Ospedale San Carlo di Potenza da settimane non ci sono pazienti di covid-19 in terapia intensiva e sono pochi quelli ricoverati nei reparti di pneumologia e malattie infettive.

Ieri il presidente della Regione, Vito Bardi, ha diffuso alcuni chiarimenti sull’ultima ordinanza emanata, quella che estende al 3 giugno la chiusura di palestre e centri sportivi, andando oltre il termine nazionale fissato al 25 maggio. Le critiche degli imprenditori del settore sono state durissime, soprattutto rispetto alla tempistica della decisione, a tre giorni dalla prevista apertura dei centri. Molti amministratori di maggioranza si sono esposti rendendo palese il disappunto sul caso specifico. Il presidente Bardi ha concesso uno spiraglio: se la situazione dovesse subire miglioramenti dal punto di vista epidemiologico, ha fatto sapere, il provvedimento di chiusura potrà essere annullato.

È lecito aspettarsi una altrettanto forte presa di posizione su ciò che attiene alla cura?

La Regione Basilicata è stata una delle prime a farsi carico delle campagne di screening per la diagnosi precoce di tumore al seno. Tra gli anni 2000 e 2006 decise di fornire attrezzature mediche ad alcune strutture di Panama e del Venezuela, per estendere l’accesso alla prevenzione anche alle lucane all’estero, residenti in aree con sistemi sanitari incapaci di garantire una simile prestazione. Nel 2016 la fascia di età delle donne sottoposte a screening in Basilicata è stata persino ampliata.

Qualche giorno fa sulla rivista scientifica Cancer è stato pubblicato uno studio che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, il ruolo della diagnosi precoce. La mortalità per il tumore al seno nei 10 anni dalla diagnosi cala del 41% in presenza di campagne diffuse di screening, con una riduzione dell’incidenza del carcinoma mammario avanzato del 25%.

Io sono una di quelle donne a cui l’anamnesi familiare suggerisce di non trascurare la prevenzione e che ha imparato dalle donne della famiglia il valore di quel tempo dedicato alla diagnosi precoce, con o senza campagne di screening massive.

Nell’ottobre 2019 ho prenotato un’ecomammaria di controllo presso l’Ospedale San Carlo di Potenza. È stata fissata per il 26 novembre 2020.

Quindi, per favore, non venite a dirci che è colpa del coronavirus.

La paura e le soluzioni lì dove si cura il cancro|La città delle donne #13

laboratorio di ricerca oncologica

I pazienti oncologici rappresentano una delle fasce di popolazione più fragili su cui l’emergenza di COVID-19 si è riversata. Un carico che ha coinvolto malati, famiglie ma anche gli operatori del settore sanitario impegnati nella ricerca e nella cura del cancro.  Giovanna Mansueto è un’onco-ematologa dell’IRCCS CROB di Rionero in Vulture (PZ). Una delle prime cose che ha dovuto affrontare è il nuovo rapporto con i pazienti. «Siamo abituati ad un confronto e un contatto prolungato, questa emergenza ci ha costretti spesso alla distanza. Ma la nostra professione va oltre i dati delle analisi documentate, richiede una lettura molto più complessiva».

Durante la prima fase dell’emergenza la capacità di adattarsi al cambiamento e trovare strade alternative per non subire l’epidemia è stata particolarmente importante. 

«Il paziente oncologico è un paziente vulnerabile, più a rischio di infezioni (qualunque infezione) e di complicazione sia per l’immunodepressione indotta dalla chemioterapia sia per l’immuno-deficit insito nella patologia stessa. Contemporaneamente sappiamo bene che per la maggior parte dei pazienti con neoplasia il trattamento chemioterapico e la continuità terapeutica rappresentano una priorità». Per questo lo sforzo del CROB è stato diretto a costruire percorsi sicuri di accesso alle terapie standard o sperimentali prendendo però le giuste precauzioni per evitare il rischio di contagio».

Nell’istituto sono stati creati percorsi dedicati, con procedure di triage da parte di personale infermieristico all’ingresso in ospedale, l’esecuzione del tampone naso-faringeo ai pazienti da ricoverare in reparto e uno screening continuo sugli operatori sanitari. 

«Costretti al ridimensionamento degli accessi, soprattutto nella fase acuta dell’emergenza, abbiamo agito sfruttando un servizio di telemedicina per i pazienti sottoposti a trattamenti procastinabili di poche settimane, per forme tumorali meno aggressive, più indolenti. Il nostro lavoro, in questo momento, ha comportato una maggiore presenza sul fronte dell’ascolto e della rassicurazione».

La pandemia ha avuto molti effetti collaterali al dirompente e drammatico diffondersi della malattia. La paura, per esempio.

«I pazienti oncologici sono più spaventati, per il coronavirus in sé e per la consapevolezza di essere particolarmente a rischio». 

Anche la prevenzione ha subito un rallentamento, con lo stop alle campagne di screening. Dovremo recuperare. «Ma è importante non aver paura di chiedere al proprio medico per qualunque dubbio, così da capire che cosa è urgente affrontare e cosa può essere rimandato senza rischio».

Anche l’organizzazione della quotidianità del paziente oncologico richiede molta attenzione. «Non c’è dubbio che l’emergenza abbia accentuato un carico di cura che già normalmente grava sulle donne. A chiamare per i pazienti, lo vediamo quotidianamente, sono soprattutto mogli e figlie». 

E il carico del medico? «Mentirei se dicessi di non aver mai avuto timore. Il nostro lavoro è mettere in atto soluzioni, cercare risposte. In questo caso ci siamo trovati di fronte a qualcosa di sconosciuto. Essere apparentemente impreparati e dover gestire l’ignoto disorienta non poco. Fortunatamente, mentre vediamo arrivare le prime risposte positive sul fronte delle terapie, osservo anche una grande solidarietà nella comunità scientifica, una grande collaborazione verso l’obiettivo comune».

A proposito di obiettivo comune, la sanità pubblica sembra tornata oggetto di grande attenzione. «Speriamo che non si tratti di un momento di ipocrisia e che, finita la fase “eroi”, si scelga davvero di proteggere la sanità pubblica senza tornare ai tagli continui che l’hanno colpita per anni».

Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

L’epidemia vista arrivare dall’interno di un reparto di malattie infettive| La città delle donne #12

Il racconto dell'emergenza da COVID-19 della caposala del reparto di malattie Infettive dell'ospedale San cCarlo

A un certo punto Pasqualina si è dovuta fermare, prendersi del tempo e farsi sostenere. «Me lo dicevano, sembravo cambiata, logorroica e tesa oltre il limite». Il merito, racconta, è di sua figlia Irene («Mi ha ricordato che per aiutare gli altri bisogna prendersi cura di sé») e del direttore del reparto («Mi ha sempre sostenuta e mi ha fatto capire che fermarmi qualche giorno non sarebbe stato tradire il lavoro»). Se poi il reparto è quello dove si concentra l’emergenza epidemica, è facile capire quanto conti poter rallentare.

Pasqualina Sarli

Pasqualina Sarli è coordinatrice infermieristica del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale San Carlo di Potenza. Ha visto e conosciuto tutte le epidemie che hanno segnato la storia degli ultimi decenni: AIDS, Sars, Ebola. «Ma come questa no, questa volta è stato diverso».

Il perché lo spiega raccontando il periodo che, dall’inizio dell’anno fino alla consapevolezza del diffondersi della Covid-19, ha vissuto tra il reparto e il costante confronto con i colleghi di ogni parte d’Italia, con cui condivide l’attività nell’associazione dei Coordinatori infermieristici CNC.
«Ho condiviso sui social network un video che ricordava come lavarsi le mani ai primi di gennaio, quando cominciavamo a parlare del virus che circolava a Wuhan: vedevo già il problema. Nelle chat con i colleghi di altre zone d’Italia circolavano i primi segnali preoccupanti, polmoniti atipiche, numeri fuori statistica».

In Basilicata le autorità si sono rese conto del problema con il primo caso di sospetto contagio. «Ma io e i miei colleghi avevamo già visto l’epidemia arrivare, eravamo preparati all’idea che dovesse accadere qualcosa».

È così che, con anticipo sulla realtà, la caposala Sarli ha cambiato la quotidianità lavorativa. «Ho cominciato a pianificare tutto, ho scritto ogni passaggio delle procedure da adottare e le ho condivise con gli operatori interessati. All’arrivo del primo caso sarebbe stato necessario per tutti avere chiaro il da farsi, non solo ai medici o agli infermieri, ma a ogni professionista coinvolto nell’accoglienza di un qualsiasi caso a rischio». Compresi gli addetti alle pulizie. «La ditta, con tutti i lavoratori, è stata straordinaria nel chiedere aiuto per definire protocolli e misure da seguire. Si sono affidati, è stato importante».

La coordinatrice infermieristica è una figura da dietro le quinte, un ponte tra le famiglie, i pazienti, gli infermieri e i medici. «Ho dovuto parlare con tutti, spendere molte energie nello spiegare, nell’insegnare procedure e prospettare scenari di rischio».

Non è stato sempre facile far comprendere e condividere. Livelli diversi del sistema della sanità pubblica hanno percepito a lungo il problema come distante.
«Ho alzato i toni per farmi sentire, ammetto. Ma so che in molti casi, ed è una cosa che ha riguardato un po’ tutti, le riserve sono state dettate dalla paura. Una reazione di difesa per sentire lontano il pericolo».

Paura ne ha avuta anche lei. «Ma non l’ho affrontata, non subito. In genere pianifico, organizzo, coordino il lavoro degli altri. Per ruolo devo avere tutto sotto controllo. Ma questa infezione di controllato mostrava ben poco. Mi è capitato di salutare pazienti arrivati sulle proprie gambe in reparto e ritrovarli al turno successivo intubati e senza grandi speranze di farcela. Ho perso uno zio a Milano per COVID-19. A un certo punto ho dovuto ammettere di non poter controllare questa malattia».

Ritmi forsennati, turni estremi e giornate intere sotto tensione. «Mi sono dovuta fermare per alcuni giorni, per far riposare fisico e testa. Per recuperare un po’ di me stessa».

L’emergenza da COVID-19 ha messo improvvisamente a dura prova ogni esistenza. «Conoscendo bene i rischi del mio lavoro, ho allontanato gli affetti e le amicizie, ho avvisato le amiche, ho accantonato in un angolo le piccole abitudini che fanno la giornata. E nel frattempo avevo il pensiero di mia figlia Irene, da sola a Bologna, e di mio figlio appena diventato medico e chiamato a cominciare la professione in piena pandemia. Credo che tutto questo abbia agito dentro, come una grande solitudine interiore. Non è stato d’aiuto».

Non è stata d’aiuto neanche la disinformazione che a lungo ha dettato l’andamento di comportamenti individuali. «Sulle mascherine nella prima fase abbiamo visto ogni genere di incongruenza. Magari noi operatori dovevamo centellinare i presidi, ma nel frattempo vedevo operai edili usare le preziosissime mascherine FFP3. Un gran caos che abbiamo cercato di affrontare facendo formazione. Se c’è una consapevolezza che mi guida è che nessuno può essere considerato un pezzo meno importante del gruppo. In un reparto di malattie infettive anche un detergente sbagliato ha effetto sulla sicurezza generale. Il reparto di Malattie Infettive del San Carlo è una grande squadra».

Certo, poi c’è il punto generale.

«La sanità pubblica è stata spremuta, noi siamo stati spremuti. Il contratto dei coordinatori infermieristici è stato depotenziato, il ruolo di responsabilità neanche viene riconosciuto. Se non abbiamo imparato la lezione in questa emergenza, non credo ne avremo più la possibilità».

E a tal proposito, «basta con questa retorica degli “eroi”: per noi è il lavoro di tutti i giorni, vorremmo solo poterlo fare, come previsto, in sicurezza e con una giusta retribuzione. Io non ho mai cambiato la dedizione che metto nel lavoro. Non esiste una infermiera “da emergenza” e una infermiera “di tranquillità”».

E quanto pagano di più le donne della sanità? «Molto di più. Il virus SARS-CoV-2 ha colpito meno le donne se il dato analizzato è quello della popolazione, ma non vale per la sanità. Il 68% degli operatori colpiti dall’infezione sono donne, perché le donne sono i due terzi dell’intero settore. Non siamo ai tavoli a cui si decidono le politiche e le strategie di risposta. Ma vogliamo parlare della difficoltà di farci ascoltare anche quando facciamo formazione o spieghiamo pratiche e protocolli che conosciamo? La reazione tipo: e ora chi è questa maestrina?».

Foto di Engin Akyurt da Pixabay