Assistere i più fragili in emergenza. E anche un po’ noi | La città delle donne #6

Ci sono stati giorni, soprattutto i primi di questa condizione di emergenza da COVID-19, in cui le cose si erano accavallate e si rincorrevano confuse, in cui Lina Bonomo è capitato di lavorare da mattina a sera, senza interruzioni, senza farci troppo caso. «Ho una tempra resistente»

Lina Bonomo

Psicologa, psicoterapeuta, è la direttrice dei servizi della cooperativa Betania, una realtà potentina che si occupa di assistenza alle persone disabili, con diverse tipologie di fragilità. Il suo è il punto di vista di quanti, impegnati nel terzo settore, stanno sorreggendo in ogni modo le difficoltà sociali con l’assistenza – che spesso è l’unica forma esistente di assistenza.

«La nostra cooperativa è basata sulla centralità della persona: utente, familiare o operatore. Cerchiamo di essere vicini a tutti con varie forme di supporto, dagli incontri individuali alle riunioni di gruppo, nessuno deve sentirsi solo. Ma è evidente che una situazione simile, così imprevista, così eccessiva, abbia accentuato notevolmente ogni tipo di disagio». Anche per questo la cooperativa ha deciso di mettere a disposizione una finestra di sostegno psicologico, aperto non solo agli utenti e alle loro famiglie, attraverso un contatto via mail (betaniacoopsociale@tin.it).

Quali emozioni incontra con più frequenza? «Un po’ tutte. Paura. Rabbia. Sconforto. Resilienza. Senso di responsabilità. La voglia di trovare tutte le energie e le risorse possibili. E le donne sono bravissime a farlo, abituate come sono al carico della cura e del lavoro. Mi trovo davanti a un’incredibile capacità di recuperare energie da mettere a disposizione di chi ha maggiore bisogno. La situazione è difficile per tutti, ma per chi ha meno strumenti, dal punto di vista psicologico, sociale o economico, lo è molto, molto di più. Questa situazione si amplifica e si fa drammatica».

La cooperativa Betania ha in carico situazioni molto diverse. «Nella maggior parte dei casi l’assistenza all’utente è, in realtà, anche un affiancamento all’intero nucleo familiare. Quasi sempre la fragilità si somma ad altre piccole e grandi difficoltà quotidiane. Madri anziane, nuclei monogenitoriali, perdita del lavoro: a seconda del contesto, la reazione all’emergenza è differente». Il non poter uscire è un fattore amplificatore del disagio.

«L’assistente domiciliare finisce per essere l’unico contatto con il mondo, finisce per portare il mondo dentro quelle case».

Il carico è sulle famiglie. Sulle donne di quelle famiglie quasi sempre.

Per Confcooperative Lina Bonomo si occupa della questione di genere. «Non solo nel terzo settore, dove la presenza delle donne è preminente. In quasi tutti gli spazi sociali ed economici, le donne sono state travolte, alle prese con nuove modalità di lavoro e di gestione della famiglia e dell’educazione scolastica dei figli. Tutto dipende dagli strumenti a disposizione: un conto è affrontare questa emergenza in una casa spaziosa con tre pc e un’altra farlo in quaranta metri quadrati e un solo smartphone da condividere. È evidente che al carico delle donne si aggiungano i rischi alimentati dalla povertà educativa. Oppure si pensi alle ricadute in agricoltura, al settore florovivaistico a maggioranza femminile. O, peggio, alle badanti e alle babysitter, spesso impiegate in nero, e adesso rimaste senza lavoro e senza l’accesso agli strumenti di sostegno al reddito».

Essere psicologa nel terzo settore, nel pieno dell’epidemia, significa avere il telefono che squilla senza sosta.

«Sono abituata a lavorare tante ore, a portarmi il lavoro a casa. Ma l’emergenza ha amplificato questo meccanismo. So che serve mettere un argine, è importante concedersi un tempo di messa in pausa. Del resto, se non si sta bene non si può essere di aiuto».

«Un ritmo simile, per un’emergenza tanto lunga, è insostenibile, per tutte».

Pagare l’emergenza, ma non poterne decidere le politiche di uscita. «Un tema antico, l’assenza della voce delle donne nei luoghi della decisione. Le resistenze continuano a essere numerose e solide. Eppure è un punto di vista utile, la lettura di genere non è né migliore né peggiore: è un punto di vista diverso, necessario». Del tutto mancante.

Foto di PublicDomainPictures da Pixabay

La bellezza di certe donne in miniatura | La città delle donne #5

Le miniature disegnate da Fabiana Belmonte per una raccolta fondi contro l'emergenza da COVID-19

Le miniature di Fabiana Belmonte hanno permesso di raccogliere in due giorni 1.600 euro destinati a varie organizzazioni o istituti di cura, tra cui gli ospedali “Cotugno” di Napoli e “Spallanzani” di Roma, Emergency, la Protezione Civile.

Fabiana Belmonte

Fabiana Belmonte è un’insegnante di inglese, scarso feeling con la televisione da guardare e la creatività prestata a progetti pensati per condividere una visione con la comunità. «La verità è che avevo finito le cose da fare in questa lunga quarantena e non avevo più materiale per dipingere. Per noia ho cominciato a realizzare le miniature», ritratti di donna tracciati su pagine di un libro che nessuno avrebbe consumato più. «Ci ho pensato a lungo, poi mi sono detta: osiamo».

La scommessa è stata buttata senza grandi aspettative sul suo profilo Facebook: avrebbe regalato le miniature in cambio di una donazione a un qualunque ente o organizzazione impegnata a fronteggiare l’epidemia di COVID-19. Libera scelta del destinatario e libera, ovviamente, la cifra. Anche minima. Le prime miniature sono state prenotate in una sera. L’indomani sono state aggiudicate tutte le altre. «Non mi aspettavo una risposta simile».

Risiede alle porte di Potenza, a due passi dal bosco, dipinge da sempre, come tutti in famiglia. «Mio padre mi insegnò prima a disegnare le mani, poi imparai a scrivere». A questo periodo, confida, ha risposto con  una reazione di esplosione creativa.

Dipinge e disegna donne, solo donne. «Perché sono esteticamente più interessanti, perché è il genere che comprendo meglio, perché è il genere che amo». Disegnate per lo più in accostamento a un elemento naturale.

«Perché le donne sono forza creatrice, e non c’è forza creatrice più grande della Natura».

Le donne di Fabiana sono entrate senza pretese a far parte delle piccole pratiche individuali di risposta alla crisi in corso.

Quanto al tempo dell’emergenza, «la mia quotidianità non è stata stravolta. Mi mancano le cene a casa con gli amici, quello sì. E temo che a questa distanza dovremo abituarci, la nostra socialità è destinata a essere molto diversa per i prossimi anni. Siamo esseri adattivi, più di quanto siamo disposti ad ammettere».

Mancheranno i viaggi e la possibilità di varcare i confini senza troppe domande. «Dovremo trovare altre mete».

Nel frattempo, finché l’isolamento in casa sarà una condizione quotidiana, ha trovato il suo modo per interpretare il refrain “nessuno si salva da solo”. «Abbiamo ancora tempo davanti. Nel caso, possono disegnarne altre».

Piccole ribellioni per beni (non) necessari |La città delle donne #4

La libreria per Fabrizia è tutto: ora l'emergenza di COVID-19 l'ha costretta a chiudere. E dopo?

«Io non ho mai pensato di poter fare altro. Io e la libreria. Qui dentro riesco a essere me stessa, e a crescere».

Già nel primo dei numerosi DPCM (Decreti del presidente del Consiglio dei Ministri) che avrebbero modificato le nostre vite per l’epidemia di COVID-19 era contenuta l’indicazione che Fabrizia Gioiosa non aveva mai messo in conto: chiudere Kiria, la sua libreria, incastonata da alcuni anni in viale Dante.

Fabrizia Gioiosa
Fabrizia Gioiosa

«Ne ho capito il senso, ma quel provvedimento mi ha catapultato in una condizione che non avrei mai immaginato di dover affrontare. La mia routine è stata completamente stravolta. Mi ha destabilizzata non avere orari da seguire, pacchi da ricevere, libri da smistare o scaffali da sistemare».

Poi è subentrata la razionalità: tanto, tantissimo tempo a disposizione. «Ho deciso di dedicarmi a quelle attività che nella frenesia di tutti i giorni erano diventate marginali. Ovviamente ho fatto scorta di libri!».

Solo che il tempo ha un problema: per quanto scorra regolare, non è mai uguale a se stesso. L’angoscia sta lì, si fa viva quando vuole. «Nessuno sa davvero quando tutto questo finirà, quando e come potremo tornare a lavorare». I timori sono quelli di una piccola impresa, di un’attività indipendente: conti, fornitori, bollette, le scadenze varie da onorare.

«È bello lavorare in proprio, ma c’è un’unica regola in vigore, ed è implacabile: se non lavori non guadagni e nessuno ti garantisce niente. Niente malattia, niente ferie pagate, niente permessi, niente…».

Come un’equazione che risuona in testa, questa sì lineare e sempre uguale.

Una situazione di totale incertezza che aggiunge nuova difficoltà al contesto già precario delle librerie indipendenti.  

Dopo i primi giorni, Fabrizia ha messo in atto la sua piccola strategia di sopravvivenza. «Ho deciso di darmi da fare e cercare un piccolo rimedio, proponendo la consegna a domicilio tramite spedizione, anche in tutta Italia se necessario. Mi tengo impegnata e rendo un servizio a mio parere essenziale alla società». Una risposta anche alla formula tecnica del decreto che, «nell’eccezionalità dell’emergenza, ha relegato i libri nella grande categoria di “beni non strettamente necessari” alla cittadinanza».

«La libreria resta invece un fondamentale punto di ritrovo, un presidio culturale e di vita. E non solo la sola a pensarla così: ho scoperto una grandissima solidarietà fra le librerie di tutta Italia che si sono unite per non abbandonare i propri lettori e gli editori, pure questi ultimi in difficoltà fra presentazioni cancellate e nuove uscite rimandate. Vedo e vivo questo grande supporto della rete indipendente».

Da qualche giorno ha riattivato anche gli appuntamenti di lettura collettiva, spostati per necessità in videochat di gruppo.

E il dopo? È un appello alla comunità locale, per contrastare un orizzonte di distopia. «Il dopo per me coincide con un invito alla mia città a non abbandonare i negozianti locali, magari per inseguire piccoli sconti negli store online. Ciò che stiamo vivendo oggi potrebbe essere la normalità fra qualche tempo: città vuote attraversate soltanto dai corrieri che consegnano continuamente merce, forse presto anche loro sostituiti da droni per massimizzare i guadagni e minimizzare attese e spese. Quartieri fantasma senza più vita, in città morte e isolate».

Meglio di no. Riavvolgiamo e ripartiamo. Il dopo? «Ritorniamo tutti a godere della nostra città e dalla nostra libertà senza darle mai per scontate. Da un’emergenza tanto grave potremmo tutti cogliere un grande insegnamento».

Foto di JULIO VICENTE da Pixabay

La distanza tra gli scaffali | La città delle donne #3

Storia di A., commessa in un supermercato in emergenza

«Quando mi capita il turno di mattina, dopo giorni di misure restrittive, ancora mi sconvolge il silenzio assordante che c’è fuori, nell’ora che in genere è quella del traffico e del caos».
A. fa la stessa strada da tanti anni, da casa al supermercato, e viceversa. Tutti i giorni, la domenica a settimane alterne. Dipendeva dai turni.

Adesso le cose sono cambiate, gli orari di lavoro e i tempi della vita anche.
«Stiamo lavorando da diverse settimane cercando di mantenere un senso di normalità, tra noi e per i clienti».

In una città come Potenza, capoluogo di regione sì, ma con le dimensioni di un medio centro periferico, anche il supermercato acquista spesso i toni della bottega di rione.
«Non so come descrivere la paura costante. Forse con il senso di vuoto improvviso che mi assale, ogni tanto, senza preavviso, tra gli scaffali, o mentre prendo posto in cassa. Abituati come siamo al saluto affettuoso, da anni condividiamo ore, chiacchiere, problemi. Soprattutto tra noi colleghe. Siamo quasi tutte donne, madri e giovani. Ora ci allontaniamo appena una accenna involontariamente un passo in avanti, un po’ per paura un po’ per istinto. Viene da piangere».

La vita in un supermercato, per chi ci lavora, non è più una cosa ordinaria. Per giorni, dall’avvio delle misure restrittive per l’epidemia di COVID-19, A. e le colleghe hanno lavorato senza i dispositivi di protezione, guanti sì, ma nessuna mascherina. Ora va meglio, ma l’attenzione personale non sempre è sufficiente.
«Proviamo a controllare il flusso, a gestire gli ingressi per evitare la calca. Ma non è facile far rispettare le misure. C’è chi si accalca, chi protesta, il nervosismo è costante, c’è chi torna continuamente per comprare un solo pezzo, le persone scattano per un nonnulla. Viviamo e lavoriamo con un’enorme paura addosso, nella tensione continua, come se fosse uno strato di polvere appiccicaticcia sulla pelle».

A fine turno, verso casa.

«Appena entro devo scostare mia figlia, che vorrebbe solo saltarmi al collo, devo allontanarla. Come glielo spiego? Come dare senso all’idea che la distanza è un modo per provare a salvarci?»

Come tutte le lavoratrici dei servizi essenziali, la paura è quella di vivere quotidianamente a un passo dal contagio, e di portarlo a casa.
«E come faccio a tenere bloccato mio figlio che è un adolescente e vorrebbe solo sfogarsi, avere un momento in cui non sentirsi costretto in uno spazio piccolo. Loro capiscono, è chiaro, sono responsabili. Però lo vedo che soffrono, che stanno perdendo delle occasioni di gioia».
Una vita comune, di abitudini piccole. Sembra una vita fa.

«Mi prendo il resto che arriva, la cena tutti insieme, per esempio. Nessuno scappa più, li trovo tutti a casa. Condividiamo una nuova ritualità, e questo mi aiuta a restare in piedi. E nelle giornate più dure, quando arrivo a sera davvero spaventata, quando penso che una volta finita l’emergenza saremo in un mondo peggiore, con il mio compagno ci siamo dati una strategia: chiudiamo la TV e giochiamo a carte». 

Foto di Jeremy Smith da Pixabay

«Ho scelto di dividere la famiglia» | La città delle donne #2

Quanto pesa la crisi di COVID-19 sulle famiglie monogenitoriali?

La nuova quotidianità di Elisabetta scorre in bilico tra la paura – quella interiore, verso il futuro – e una sorta “di stato di grazia” – senza dirlo troppo ad alta voce, però. L’emergenza Covid 19 le ha dato l’opportunità di godersi un tempo familiare, che è il tempo della giornata in casa con il figlio undicenne. Lavoro e compiti, film, cucina, lettura, dialogo, lavoro e compiti, cucina, film.

Elisabetta Pennacchia

«Questo è il buono che è arrivato e, onestamente, me lo prendo tutto». Una quotidianità diversa e per certi versi positiva che permette a Elisabetta Pennacchia, in amministrazione all’INPS, di dedicare tempo al figlio nella gestione delle cose normali. «Normalmente quando torno dall’ufficio, a pomeriggio inoltrato, lui ha già finito i compiti e la giornata pesa già così tanto, il tempo di cenare, andare a letto e si ricomincia. Ora ho la possibilità di spendermi anche nelle piccole cose, nella sciocchezza del potergli chiedere che cosa desidera per pranzo, oppure nel poter condividere tempo ad approfondire un argomento, a comprendere un tema più complesso».

Certo, poi c’è la paura che sta lì, sempre, con o senza epidemia. «E se mi ammalo io, che gli succede?» Solo che questo pensiero fisso, oggi assume altre declinazioni.

«In casa siamo solo io e mio figlio. Quando l’emergenza è cominciata ho deciso di separarci dai miei genitori, il cui appartamento, in tempi normali, è anche la nostra base logistica». I genitori di Elisabetta sono un pezzo della giornata, «ma ora ho deciso di spaccare in due il nucleo familiare sperando di abbassare le possibilità che qualcuno di noi si ammali». Eccolo, il peso emotivo.

«Ho deciso di rimanere da sola per una maggiore protezione, pur sapendo che, nonostante le precauzioni e un atteggiamento rigoroso, nessuno può togliermi dalla testa il timore, di ritorno dalla spesa: e se trasmettessi il virus a mio figlio? E se accadesse, chi ci separa? E chi ci tiene insieme?».

Il guadagno è in termini di tempo. «Anche per ragionare insieme su quello che sta accadendo, per capire che la crisi di ora è il preludio di un momento che forse sarà persino più difficile».

La fine dell’emergenza ne aprirà un’altra, diversa. «Non penso avremo poi così tanta voglia di abbracciarci, di accorciare le distanze che stiamo imparando a tenere. Questo sospetto verso l’altro temo ci resterà attaccato addosso». E il lavoro andrà recuperato, pratiche e progetti dovranno ripartire, accelerare.

«Questa emergenza ci ha restituito tempo, e spero saremo capaci di trattenerlo, di trattenere il valore di ciò che oggi ci manca, di ciò che davamo per scontato e scontato non è più. Io, per esempio, sento una potente e profonda nostalgia dei miei genitori, della quotidianità insieme, mangiare un dolce la domenica, guardarli in faccia. Ho paura che possa succedergli qualcosa e che io non possa fare niente, nemmeno rivederli».

Va tutto rivisto su possibilità e contesti che non avremmo immaginato. La scuola, per esempio. Impreparata, per la maggior parte dei casi, al netto delle buone intenzioni e delle distanze colmate dalle tecnologie. «La pratica, diciamolo, è un’altra cosa».

Oppure il lavoro. «Nella pubblica amministrazione questa condizione potrebbe davvero permetterci una valutazione su quali sono gli spazi e i processi da snellire, quali sono i progetti necessari e quali possono essere riformulati per snellire l’intero sistema». Da subito, si spera, appena tornati a un sentore del “prima”.

«Oggi ho scelto di decidere per tutta la mia famiglia, caricandomi la paura dell’intera filiera familiare, tagliando fuori dalla nostra vista affetto e aiuti concreto dei nonni. Ecco perché mi auguro che se le scuole dovessero continuare a essere chiuse, vengano proposte soluzioni coerenti per i genitori». Il tema sul tavolo è quella delle famiglie monogenitoriali, praticamente inesistenti nella programmazione delle politiche per la famiglia. Forse inesistenti in qualunque tipo di riflessione pubblica. Che cosa comporta? «Non posso ammalarmi, è semplice».

Foto di Ronny Overhate da Pixabay