
Ho fatto due passi sotto casa, rigorosamente attorno al palazzo, svolta a destra lungo la via principale di accesso, avanti e indietro un paio di volte. Finché non è passata una volante della Polizia di Stato. Ho accelerato, ho immediatamente rinunciato all’ultima “vasca di struscio” entro il raggio consentito, ho ripetuto a mente la motivazione da addurre. La volante, in realtà, non si è fermata. Ma io mi sono ritrovata ad aver modificato il mio agire – pur se legittimo e nel pieno rispetto delle direttive – spinta dalla paura. Paura di cosa, poi?
L’indomani sono andata a fare la spesa, rigorosamente settimanale, con lista alla mano e in un orario, la controra, meno affollato. Ero l’unica senza mascherina. Non avevo fino a quel momento cercato di comprarne una perché, consapevole della scarsità del bene primario, ho pensato che fosse il caso di lasciarne i pochi esemplari disponibili al comparto sanitario e sociale, evitando di andare a gravare sul mercato speculativo in atto. Nonostante camminassi con molta attenzione tra gli scaffali, spingendo sempre il carrello a debita distanza dagli altri clienti (pochi e contingentati secondo le direttive), a un certo punto mi sono accorta di aver accelerato nella selezione dei prodotti e di aver preso la via della cassa anzitempo. Ero letteralmente sotto osservazione, additata a vista dagli sguardi mezzi coperti dalle mascherine, praticamente un’aliena a non indossarla. Nel pieno rispetto di prescrizioni e misure di sicurezza mi sono sentita fuori luogo. Ma perché, poi?
Allora ho capito. Sto modificando molti miei comportamenti sotto la spinta di un controllo istituzionale che mi chiede di aderire a numerose prescrizioni in nome della salute pubblica e sotto la spinta di un controllo sociale che trasforma la responsabilità in pressione percepita, talvolta in vero e proprio linciaggio.
Al controllo sociale posso reagire dando spazio a piccole pratiche quotidiane che stanno ridisegnando la mia quotidianità, come modificare le fonti informative da seguire, per esempio.
Al controllo istituzionale, invece, mi attengo. Però reagisco, dubito e mi indigno.
Perché se c’è una cosa che non può essere tollerata in uno stato di emergenza è l’incapacità, volontaria o meno, di comprendere che non siamo tutti uguali.
Una crisi come quella in atto sta ampliando ancora di più il divario esistente tra le persone: lo fa dal punto di vista sociale, economico e culturale.
Pagano le classi più deboli, pagano le donne, paga chi era vittima anche prima della pandemia di Covid-19.
Ecco perché diventa insopportabile qualunque azione o affermazione che non si faccia carico di questa consapevolezza, soprattutto se arriva da chi ha, in questo momento, ruoli pubblici.
Qualche giorno fa, sentito dalla TGR regionale su come affrontare il pendolarismo del personale medico, il direttore generale dell’azienda ospedaliera San Carlo, Massimo Barresi, lanciando un appello al sacrificio, ha lasciato che si sottolineasse il suo stato di forestiero: non vedeva la famiglia da due settimane. In un momento in cui ci sono medici di base, infermiere, commesse, operai che scelgono volontariamente di allontanarsi da figli e genitori per evitare ogni rischio di contagio mentre garantiscono a tutti noi i servizi essenziali, dalla classe dirigente è lecito aspettarsi un approccio diverso.
Antonio Nicastro, paziente di Covid-19 ricoverato al San Carlo, è un cittadino di Potenza. Suo figlio Valerio, bravo blogger, ha aspettato diversi giorni prima di denunciare pubblicamente il rimpallo a cui la sua famiglia è stata sottoposta, in attesa della reazione a un quadro sintomatico fatto di febbre, affanno e tosse persistente. Chi si assume la responsabilità di una risposta di cura, coronavirus o meno?
Il protocollo stabilito dal Ministero della Sanità è rigido e le indicazioni sono quelle contenute nella circolare ministeriale del 9 marzo. L’esecuzione del tampone spetta alle Asl. Alcune Regioni, però, si stanno organizzando in modo differente. In Basilicata diversi amministratori locali hanno chiesto a gran voce l’allargamento della platea dei casi su cui effettuare i tamponi, anche per dare risposta alle aspettative (e alle paure) dei cittadini. Il punto, però, non è la disponibilità dei tamponi, ma del tempo e dei professionisti necessari per analizzarli. Anche perché, nel frattempo, sui test rapidi – l’assessore regionale alla Sanità, Rocco Leone, ha annunciato l’acquisto di 10.000 unità – il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) nazionale dell’emergenza ha spiegato che, per quanto utili, non vi è ancora certezza sull’attendibilità dei test agli anticorpi alternativi al tampone rino-faringeo.
Quando Valerio Nicastro si è visto costretto a denunciare pubblicamente l’assenza di una risposta chiara al bisogno di cure del padre, i contagiati da Covid-19 in Basilicata erano solo 50.
Medici, infermieri, operatori sanitari, addetti alle pulizie, operatori di protezione civile stanno facendo turni massacranti, senza poter disporre delle protezioni necessarie, assumendosi in prima persona responsabilità e peso della cura. In una situazione di carico fisico e stress psicologico elevato.
In una regione che conta circa di 500.000 abitanti e che ha avuto diversi giorni per organizzare, se non i posti letto aggiuntivi in terapia intensiva, almeno un protocollo di comunicazione univoco, non è ammissibile che il sistema sanitario lasci alla pressione sociale esercitata o ai medici di base, d’urgenza ed ospedalieri il peso della valutazione della risposta all’emergenza. Anche a livello comunicativo.
Qualche giorno fa, a Potenza, ci sono state lunghe file fuori da una grande parafarmacia per la conquista di alcuni pezzi delle tanto ricercate mascherine. La comunicazione sull’utilità o meno di indossare le mascherine è stata, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, molto confusa. Per il mercato è stato facile puntare sulle paure comuni e distribuire prodotti a caro prezzo, facendo leva anche sull’ignoranza dei più: fpp2, fpp3, mascherina chirurgica, tessuto TNT, valvola sì, valvola no. Dopo qualche giorno di quarantena, ormai, almeno dal punto di vista tecnico, è possibile districarsi tra le varie tipologie. Le mascherine vendute a quei cittadini in coda sono del tipo fpp1, quelle antipolvere, consigliate per i lavori edili e di falegnameria, che in genere costano una media di 3,20 euro al pezzo: sono state vendute a 6,50 euro. È chiaro che la catena di speculazione parta a monte (un litro di alcol etilico denaturato a 90°, per esempio, in città costa fino a 2,30 euro al litro; in tempi normali 0,90 euro). Però c’è sempre una differenza nelle scelte del singolo. La comunicazione in bella vista in vetrina che recitava “mascherine del tipo fpp1 a 6,5 euro cadauna” mi è sembrata una testimonianza della deresponsabilizzazione di chi è un nodo del settore. Come a dire, io preciso la sigla in linguaggio tecnico, poi il cittadino googola e decide se l’acquisto è valido o meno.