
L’emergenza da COVID-19 ha cambiato tante cose. Ne ha cambiate molte dentro gli ospedali, avamposti di questa crisi, a cui guardiamo con apprensione e ammirazione, incrociando i dati dei bollettini del contagio, in attesa del giorno in cui non dovremo ascoltarne più.
Ma le cose sono cambiate anche oltre i corridoi dell’urgenza e dei reparti COVID-19. Per esempio, in quelli dove, comunque, si continua a nascere.
Maria Laura Pisaturo è medico, ginecologa nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale San Carlo di Potenza, una struttura da 1.600 parti all’anno. E lì dove si continua a nascere l’emergenza da coronavirus non ha impattato sulle dinamiche sanitarie, ma sulla gestione complessiva del momento.
«Per le misure di sicurezza, gli accessi sono ovunque ridotti al minimo. Così la donna si trova a vivere questa esperienza completamente sola». Nel travaglio come nel ricovero post parto, tocca a loro, medici e ostetriche, con il resto del personale coinvolto, accompagnare la donna nella nascita, con un carico nuovo.
«La partoriente viene affidata in tutto a noi, che ci siamo ritrovate a farci carico anche del supporto emotivo in un momento tanto intenso e delicato. In genere, la presenza del compagno, del marito o di un altro familiare durante la nascita è un aiuto importante sul versante emotivo, per la tranquillità della donna. Oggi che per le disposizioni di sicurezza non è possibile, tocca a noi affrontare non solo il versante medico, ma anche quel sostegno. È bello, ma anche faticoso».
Un carico nuovo a cui rispondono con un po’ di ingegno e qualche espediente tecnologico. «Non è la stessa cosa, ma almeno questo possiamo farlo».
Una fotografia scattata un istante dopo la nascita, una videochiamata dalla sala parto, un video in più. «Non ci eravamo abituati, abbiamo dovuto anche noi ridisegnare la presenza. È chiaro che non riusciamo a fermare e comunicare la forza di quel momento, dobbiamo prima portare a termine l’assistenza. Ma è il modo con cui proviamo a rispondere alle necessità delle nostre pazienti di sostegno e condivisione dell’esperienza».
Quanta la paura del virus? «Non ne ho vista tanta, non rispetto alla gravidanza in sè. C’è ancora poca letteratura in materia e ad oggi la tempistica non ci ha ancora messo di fronte a gravidanze avviate nel pieno dell’epidemia. Ma su questo aspetto, fortunatamente, la tensione mediatica non ha agito da detonatore di paura. Non percepisco timore rispetto alla gestazione e alla salute del feto; la paura grande è, invece, nei confronti dell’infezione».
Più preoccupante è forse il tema delle lunghe solitudini a cui la maggior parte della popolazione è costretta. «È evidente che periodi duraturi di relazioni ridotte acuiscano il disagio lì dove già esistono fragilità emotive e psicologiche. E sulle donne questa condizione ricade di più».
L’emergenza da COVID-19 ha cambiato tante cose. Ovunque. «Io ho guadagnato tempo per la mia famiglia, con cui riesco a stare concedendomi azioni e attività minime. Ho recuperato il tempo della cura e della gestione familiare, che il lavoro mi costringevano generalmente a delegare. Mia figlia si gode questa condizione felice, e anche io».
L’emergenza da COVID-19 ha cambiato tante cose. Anche nel modo in cui pensiamo a certe competenze. «Mi capitava già prima di ricevere cenni di affetto e gratitudine, magari anni dopo la nascita di un bambino, le foto mentre cresce, cose così. Ma adesso noto qualcosa di diverso, di più. Questa epidemia, per quello che sto percependo, ha modificato lo sguardo dei cittadini sul nostro lavoro, sul senso di missione tipico della professione medica, la consapevolezza che mettiamo a repentaglio la nostra vita e, di conseguenza, le nostre famiglie, per salvare vite. Ecco, è bello aver guadagnato anche questo».
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