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Le donne, i dati, e il tempo perso| La città delle donne #21

Qualche settimana fa mi è capitato di trascorrere del tempo con alcune donne durante la loro chemioterapia. L’esperienza mi ha lasciata carica di dolore, e non per la sofferenza della cura a cui si stavano sottoponendo, non solo almeno. È la storia che hanno condiviso ad avermi stordita.

Ci arrivo per contingenza. Io sono anemica, in modo imbarazzante. Ogni tanto mi capita che certi valori raggiungano quote “fuori standard” al punto da aver bisogno di cicli di infusione di ferro. Non è un problema grave, si affronta, si risolve, ma va tenuto a bada.

Lo scorso autunno ho chiesto una visita di controllo all’ospedale San Carlo di Potenza ma c’era disponibilità dopo un anno. Con i valori ormai al limite, ho accettato di spostarmi a pochi chilometri, all’ospedale IRCCS Crob di Rionero in Vulture. È un ospedale oncologico, centro di ricerca e punto di riferimento per le malattie ematiche, non solo in Basilicata.

Sul momento mi è sembrato ingiusto che un caso semplice come il mio dovesse caricare il lavoro di un centro oncologico, votato a ben altre difficili problematiche. Insomma, anche solo pensare che l’infermiera avrebbe dovuto impegnare un paio di ore del suo turno su di me, mentre la sala era piena di donne alle prese con terapie difficilissime, mi ha procurato un profondo senso di inadeguatezza.

Continuo a credere che sia un errore per il San Carlo non esercitare un ruolo centrale nell’accesso alle cure di ogni livello e caricare i casi generici su una struttura specializzata, ma questa è una altra storia.

Questa premessa mi serve solo per ribadire di aver incontrato professionisti e professioniste di alto profilo e di aver potuto fare un’esperienza per cui sono grata. E che oggi, poiché è la giornata internazionale per i diritti delle donne, credo abbia senso condividere.

Il giorno dell’infusione di ferro, in una stanza al terzo piano del Crob, eravamo in quattro. Le altre tre pazienti credo abbiano percepito il mio imbarazzo, forse per questo mi hanno dato subito corda, chiedendomi di cose semplici, lavoro, casa, famiglia, serie TV.

E di cose semplici, ma aggrovigliate alla cura e al cancro che loro tre stavano fronteggiando, abbiamo discusso nelle successive ore, semisdraiate su una poltrona arancione, attaccate a vari tubicini.  

Stefania (non si chiama Stefania) ha circa 45 anni, sta affrontando la recidiva di un linfoma. «Anche io sono anemica, è per questo che all’inizio non davo peso all’affanno e alla stanchezza cronica. Solo che poi è diventato sempre più difficile fare persino un paio di scale e dentro di me ho capito che l’anemia non c’entrava. Ma che vuoi, c’era il lavoro (collaboratrice domestica presso alcune famiglie), non è che potevo prendere malattia per gli accertamenti, in realtà non ho neanche chiesto. Ho continuato a tirare avanti, a badare alle case degli altri, alla mia, ai miei genitori. Poi un giorno sono svenuta e da lì alla prima terapia è stato un attimo».

Angela (non si chiama Angela) credo abbia da poco superato i 50. Marito e due figli, con la pandemia la stanchezza è diventata doppia. «È che a volte mi viene da piangere, torno a casa dopo la chemioterapia e vorrei buttarmi sul letto per i dolori, invece la cena non è ancora pronta». Anche Angela è arrivata alla diagnosi almeno un anno e mezzo dopo i primi sintomi importanti: perché se stai dietro al lavoro, alla casa, ai figli, al marito non riesci proprio più a trovare il tempo. E forse neanche lo cerchi.

Daniela (non si chiama Daniela) anche quel giorno aveva guidato in auto per 180 chilometri, 2 ore e mezza di strade statali e provinciali, per poi farne altrettanti al ritorno, dopo la terapia, per tre volte a settimana, per diverse settimane. Durante la chemioterapia credo abbia risposto almeno cinque volte al telefono spiegando dove fossero cose in casa, che cosa ci fosse da comprare e a che ora qualcuno avesse l’appuntamento dal dentista.

A fine mattinata l’infermiera mi ha staccato dalla flebo di ferro, pronta e forte a tornare a casa, e io mi sono fatta minuscola in quella stanza dove le altre tre stavano affrontando una salita ripidissima. Mi sono sentita di colpo pesante, ma anche grata.

Perché ce lo diciamo da anni, vediamo queste donne, le abbiamo accanto e in famiglia, quando non siamo proprio noi. Ma siamo sempre in tempo per ripetercelo, ricordarcelo e arrabbiarci.  

Ogni ambito della vita pubblica e privata ci chiede uno sforzo aggiuntivo, come se fosse normale dover colmare così lacune e vuoti.

Se non bastassero le dichiarazioni d’intenti, puntuali arrivano i dati a ricordarcelo.

Solo pochi giorni fa l’Istat ricordava che il calo occupazionale collegato alla pandemia nel solo dicembre 2020 è stato pari a 101mila persone, di cui 99mila donne. Sempre per le donne è calato il tasso di occupazione ed è cresciuto quello di inattività̀.

Il rapporto “Nidi e servizi educativi per l’infanzia, stato dell’arte, criticità e sviluppi del sistema educativo integrato”, stilato dal dipartimento per le Politiche della Famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Istat e l’Università Ca’ Foscari Venezia, ricorda che nelle regioni meridionali i posti disponibili nei nidi e nei servizi integrativi pubblici e privati non raggiungono mediamente il 15% del potenziale bacino di utenza.  Rispetto al parametro del 33% fissato dall’Unione Europea già nel 2002, la Basilicata, per esempio, si ferma al 14,3%.

Sul versante sanitario, il discorso coinvolge sia il carico dell’assistenza al paziente, quasi sempre in capo alle donne, sia le politiche di accesso a diagnosi e cura.

Abbiamo ormai imparato che contro il cancro il tempo è un fattore decisivo. Uno studio dello scorso ottobre, coordinato dalla Queen’s University di Kingston in Canada, ha quantificato la relazione tra il ritardo del primo trattamento e l’aumento del rischio di mortalità nei tumori più comuni. Un ritardo di otto settimane nella chirurgia del cancro al seno, per esempio, aumenta il rischio del 17%, un ritardo di 12 settimane porta il rischio al 26%.  Lo studio ha assunto un valore fondamentale in questo tempo di pandemia, durante il quale le attività di prevenzione, diagnosi e trattamento hanno subito lunghe sospensioni, spesso ingiustificate.

Per le donne, tuttavia, quelle sospensioni si sono spesso aggiunte al tempo perso per effetto del carico di lavoro e del carico mentale che si chiede loro di sostenere nella quotidianità.

Di quando sai che qualcosa non va, ma rinvii perché il tempo fai fatica a trovarlo. O forse pensi di non averne diritto.

Foto di Mylene2401 da Pixabay

«Ho solo fatto un gesto di cura per la mia comunità» | La città delle donne #19

«Ho imparato che non bisogna mai dare nulla per scontato, e che rispettare le regole è l’unico modo per fare davvero qualcosa di concreto per la comunità», andando oltre proclami e parole.

Federica Pietrafesa

Quella di Federica Pietrafesa è una storia minuta, che si perde nel caos dell’emergenza epidemica, in cui l’attualità corre veloce, tra titoli di giornale, polemiche politiche, crisi economica, cose dette e ripetute l’indomani nella formula dell’esatto contrario. Ma è in questi contorni che la vicenda, racchiusa in pochi giorni di un luogo di periferia, trasferisce una lezione comune di ostinazione e cura degli altri.

Quando ha deciso che fosse arrivato il momento di ampliare il bar di famiglia, che gestisce dal rientro a San Nicola di Pietragalla per aiutare la madre, interrompendo a metà l’Erasmus in Spagna, Federica non poteva immaginare quanto la scelta si sarebbe rivelata ardita. Il lockdown l’ha sorpresa con il cantiere aperto «e il bar sottosopra». Poi la Fase 2, il riavvio dei lavori alla struttura e l’inaugurazione ai primi di luglio.

Pochi giorni dopo, il locale ha avuto tra i clienti anche un giovane del posto, tornato dal Nord per le vacanze. «Certo che aveva la mascherina». Di lì a poche ore quel ragazzo sarebbe risultato positivo al coronavirus.

In un luogo piccolo come San Nicola di Pietragalla, a pochi passi dal capoluogo Potenza, periferia di una periferia, ci si conosce tutti. Una notizia impiega poco a fare il giro del paese e delle contrade. E anche oltre. «Ho visto il nome del locale circolare su giornali e social network, “additato” come il bar dove era stato il giovane positivo al virus. Ho passato ore al telefono a rassicurare le persone. Mi chiamavano allarmate, chiedevano se fosse vero. Chiedevano tutti che cosa avessi deciso di fare. Sotto pressione, mi sentivo quasi una carnefice».

In realtà Federica aveva già fatto tutto quello che era necessario, e persino di più. Contattati i carabinieri e l’amministrazione locale, ha prima sanificato il locale e poi, tramite l’ASP, ha sottoposto se stessa e le dipendenti al tampone, aggiungendo una chiusura cautelativa del bar in attesa dei risultati.

In assenza di protocolli chiari e definiti rispetto a un caso simile, «ho solo cercato di fare tutto quello che era nelle mie possibilità per garantire la salute e la sicurezza di chi mi accorda fiducia. Ho sempre pensato che il lavoro, qualunque esso sia, abbia a che fare con la cura e la premura per l’altro».

Ricevuti gli esiti dei tamponi, alcuni giorni dopo i test, ha riaperto il locale. «Per un po’ non è venuto nessuno. È stata dura. Ma adesso i clienti sono tornati. Questo è un bar della comunità, rifarei tutto».

Giornaliste in tempo d’emergenza, giornaliste in tempo di crisi | La città delle donne #18

Questo articolo ha avuto una gestazione lunga e articolata, molto più di quanto previsto. Doveva essere il primo della serie dedicata a come la pandemia ha impattato, modificandola, sulla vita delle donne. Avevo deciso di partire dalle giornaliste che nella mia città si erano ritrovate alle prese con l’epidemia di COVID-19: da gestire nel privato e da raccontare nel pubblico. Partire da loro mi era sembrata una scelta naturale, a metà tra la solidarietà e l’omaggio. Poi, mentre scrivevo e raccoglievo alcune testimonianze, ho capito che non avrebbe avuto molto senso proseguire questo documento senza contestualizzarlo in quello che stava accadendo attorno, e per cui la pandemia si era rivelata solo un’ulteriore spinta. La peggiore crisi dell’editoria degli ultimi decenni proprio nella mia città stava brutalmente mettendo in mostra vecchie e nuove fragilità del settore. Ho fatto allora l’unica cosa possibile perché questa piccola indagine nelle vite da emergenza avesse un senso, ho chiesto ad alcune di queste colleghe di ampliare il ragionamento per condividere un altro pezzetto di contesto, dell’essere giornaliste, in una città di periferia, in questo tempo.


Nelle prime settimane di lockdown Diana Fichera è stata la giornalista da cui la comunità attendeva gli aggiornamenti sullo stato dell’epidemia in Basilicata. Per giorni ha gestito per la TGR RAI Basilicata l’appuntamento informativo con il bollettino epidemiologico e le notizie sull’emergenza dall’Ospedale San Carlo di Potenza. Generalmente impegnata all’interno della macchina del tg, si è trovata a lavorare per lunghe settimane lontana dalla redazione, in esterna.

Diana Fichera

Erano i primi giorni delle misure anti-covid, con le strade svuotate, le scuole chiuse e tutta la regione sintonizzata coi telegiornali delle 14:00 e delle 19:35, uno share altissimo.

Il distanziamento fisico era da poco diventato un obbligo, e il lavoro era improvvisamente cambiato. «Prescrizioni da rispettare, alcuni problemi tecnici all’inizio, i dispositivi di protezione. Forse il lavoro è più impacciato – ha spiegato –, ma è un cambiamento da affrontare, nulla di insuperabile». In quei primi giorni di pandemia – sembra trascorsa un’epoca – sembrava un’impresa riuscire ad avere un quadro chiaro della situazione locale, tra il caos delle fonti istituzionali e la bulimia di notizie, più o meno veritiere, che sul territorio si inseguivano tra bacheche online e chat di messaggistica.

«La verifica delle fonti rimane la più solida e forte delle regole del nostro lavoro. In un simile momento lo sforzo deve essere ancora maggiore, dobbiamo incrociare fonti, moltiplicare le verifiche. Parliamo di salute pubblica, di ricadute sui comportamenti collettivi, sbagliare su un tema simile è forse più grave». Come cambia il lavoro? «Non credo sia cambiato il mestiere: gerarchia e pluralismo delle fonti, e poi verificare, verificare, verificare». Allora come è cambiato il pubblico? «Mi hanno scritto in tanti, usando magari Facebook, hanno cercato un contatto, hanno ringraziato, hanno chiesto aggiornamenti. Mai come in un momento di emergenza, le persone hanno sentito il bisogno di serietà nell’informazione».

All’improvviso, ha raccontato Mara Risola, giornalista del quotidiano La Nuova del Sud e del telegiornale dell’emittente La Nuova TV, l’epidemia di Covid-19 ha cambiato ogni cosa, anche in redazione. «Il lavoro di una redazione è basato sul continuo confronto di idee, sul dibattito incessante. A distanza, da casa, nonostante lo sforzo costante di trovare spunti e sollecitazioni da sviluppare, è difficile approfondire il ragionamento». Senza contare i problemi del sovraccarico sulla rete a cui lo smartworking ha abituato tutti nei primi tempi di lockdown.

Mara Risola

Tutto chiuso, la circolazione limitata, comunicazioni solo via chat e telefono. «Il cambiamento più importante è stato dover raccogliere le notizie senza poter andare a cercarle sul posto». Per Mara, brava cronista politica, abituata alle domande “fuori sacco” in contesti pubblici, si è trattato di ridisegnare l’approccio alle fonti e alla scrittura. «L’intero timone (lo schema che funziona come indice di un giornale e distribuisce gli argomenti nelle varie pagine, ndr) ruotava attorno a un solo input: come la politica reagisce al coronavirus, come la cultura si ripensa per il coronavirus, come lo sport affronterà il coronavirus. Arrivano i comunicati, le note ufficiali, possiamo raccogliere qualche dichiarazione online affidata ai socialnetwork. Ma la verità è che noi serviamo per scardinare i meccanismi basati sulla retorica. Noi serviamo a questo, a capire che cosa c’è dietro tante belle parole, al fondo vuote».

A proposito di parole, quelle dei bollettini epidemiologici delle task-force dell’emergenza si sono susseguite per diverse settimane un paio di volte al giorno: poche frasi e molte cifre per tracciare il quadro del contagio in Basilicata. «Sono stata male, ammetto. Sono empatica, leggere quelle notizie mi ha creato dolore».

In una comunità piccola capita che il giornalista conosca bene le storie di cui si trova a raccontare risvolti drammatici. È il giornalismo locale.

«La parte più difficile – ha aggiunto Anna Martino, freelance con collaborazioni nella cronaca e negli uffici stampa – è stato il flusso continuo. Era impossibile fermarsi a riflettere, avere il tempo per approfondire. L’attenzione spasmodica richiesta ai numeri, ai casi, alle storie ha modificato profondamente anche il modo di dover osservare quello che accadeva attorno».

Anna Martino

Tra social network e chat «ho notato un’abnorme ricerca di conferme e dettagli su chi era stato contagiato, chi era stato a contatto con chi. Contemporaneamente, però, ho notato anche una maggiore attitudine a cercare, nei limiti del possibile, fonti di informazione corretta e autorevole. Online è possibile raccontare storie che con format tradizionali troverebbero poco spazio, e questo aiuta nell’andare oltre la finestra sulle vite degli altri. Ma è importante anche capire che cosa cerca la comunità di lettori. Se all’inizio era importante conoscere l’andamento dell’epidemia, poi le famiglie hanno preteso risposte sul “dopo”».

Essere una giornalista freelance nei giorni della pandemia ha significato un confronto costante con il tempo: «Da un lato serve la velocità, la risposta immediata, ma dall’altro la precisione è fondamentale. Un numero sbagliato, se quel numero riguarda magari i tamponi processati o le vittime, fa la differenza. Si lavora a ciclo continuo, con più ansia, più stanchezza, e più preoccupazione. È stato impossibile sconnettersi».

Ma in piena fase 3 le cose non sono poi molto diverse. «Essere giornalista freelance a partita IVA è difficile a prescindere. L’equo-compenso non è quasi mai applicato, e per raggiungere un’entrata mensile dignitosa bisogna necessariamente svolgere più incarichi contemporaneamente, il più delle volte a discapito della qualità». E poi c’è il tema dell’autonomia. «È un concetto, per così dire, relativo. Per quanto sia specificato dalla norma, è letteralmente impossibile rispondere “oggi sono fuori città, non posso seguire la notizia o redigere questo comunicato stampa”. Alla seconda risposta simile, troverebbero un sostituto. Essere freelance ha a che fare con un dato fiscale, ma la verità è che sono soggetta ugualmente a orari e regole non formalizzate».

Per una donna il problema è doppio: riguarda il futuro. «Vivo sempre in tensione, anche dal punto di vista emotivo, non vi è certezza del domani. Poi, certo, dobbiamo cambiare, ripensarci, reinventarci, ma fino a quando? E per quanto? Ci sono momenti in cui non basta. Al momento non ho una famiglia, ma se ci penso so che dovrei rivedere completamente la giornata lavorativa. Il che significa rinunciare ad almeno la metà degli incarichi e, dunque, a una cifra “decente” per la sopravvivenza. E alle mie ambizioni».

Cinzia Grenci è vicecaporedattrice della TGR Basilicata, tra le poche donne al vertice nelle redazioni italiane. «In RAI, va detto, siamo più tutelate da questo punto di vista, perché da tempo l’azienda sta affrontando il superamento del divario di genere».

Cinzia Grenci

Che cosa ha voluto dire la responsabilità di coordinamento nella fase acuta dell’emergenza pandemica? «È cambiato il modo di immaginare il telegiornale. Questa emergenza ci ha messo di fronte a bisogni e necessità prima sconosciuti, a volte sottovalutati, o semplicemente improvvisamente diventati prioritari». Le difficoltà logistiche – distanziamento, luoghi pubblici inaccessibili, squadre meno numerose, sicurezza dei colleghi – hanno reso necessarie «modalità nuove che dovremmo continuare ad esplorare.»

Le redazioni sono microcosmi fatti di persone. «Abbiamo affrontato una pressione psicologica notevole, si scattava più facilmente, eravamo tutti più esposti a paure e preoccupazioni». Con la pressione dell’essere un punto di riferimento. «Il nostro è un telegiornale molto seguito e in momenti di difficoltà collettiva, la responsabilità non può che aumentare».

In quei giorni come immaginava saremmo usciti dalla crisi? «Sono un po’ pessimista, credo sia stato solo un tempo sospeso che ci auguravamo ci avrebbe insegnato qualcosa, ma in poco siamo tornati al punto di partenza, riprendendo la vita con i suoi limiti».

Nel frattempo gli effetti dell’emergenza sanitaria emergono sul fronte economico, anche nell’editoria. «In un simile momento di crisi, diventa centrale l’informazione del servizio pubblico che deve essere anche da stimolo. Non a caso nella nostra trasmissione mattutina di “Buongiorno Regione” ci soffermiamo a lungo sulla rassegna stampa dei quotidiani locali, invitando ad acquistare i giornali, consapevoli di quanto ogni voce sia necessaria sul territorio».

Quella della TGR RAI in Basilicata è una delle redazioni in cui le donne sono una presenza rilevante, per numero e incarichi. Ma in generale, anche il giornalismo, come gli altri settori della vita pubblica propone un divario di genere importante. E la Basilicata non fa eccezione, con due sole donne a guidare da direttrici una testata, Giusi Cavallo per Basilicata24.it e Maria Fedota per l’edizione lucana delle Cronache del Mezzogiorno.

Eccezione è anche quella di Antonella Inciso, a lungo unica donna nel CDR (l’organismo sindacale rappresentativo della redazione, ndr) della Gazzetta del Mezzogiorno. «Nonostante i diritti conquistati dalle lotte del passato, la strada da fare è ancora lunga. Femminismo oggi significa saper fare rete; credo che la conquista oggi abbia a che fare con il cambio radicale di mentalità, non con l’imposizione tramite norma». Come per esempio quando nelle riunioni sindacali a distanza, in tempi di emergenza covid, se il collegamento non si avvia è “perché il gestore nel vedere la bella collega si è emozionato”. «Se fosse capitato a un uomo non ci sarebbe stato spazio per le battute», ma tant’è.

Antonella Inciso

Donne in editoria e la fatica. Doppia, quella del districarsi nella crisi, nell’averne consapevolezza «abituate a gestire famiglia, casa, lavoro, conti, figli. Il peso – ha aggiunto – lo sentiamo tutto, compreso il carico dei colleghi che rappresentiamo ai tavoli della vertenza».

L’editoria è in crisi, «ma mai come oggi le persone chiedono informazione veritiera, corretta, di qualità. Forse dovremmo riflettere su come fornirla, su come dare gli strumenti al cittadino per distinguere quella qualità, a garanzia del sistema democratico. È questa la battaglia che salverà le nostre testate e le redazioni».

Il cambiamento nelle abitudini di consumo dell’informazione – più mobile, più socialnetwork – è una sfida, un indirizzo. «Sta anche a noi individuare nuove chiavi di lettura, comprendere quali sono i bisogni dei nostri lettori, quali le domande da soddisfare». Con un suggerimento per azioni di sostegno istituzionale. «Per esempio – ha proposto – la Regione potrebbe farsi carico dell’acquisto dei quotidiani locali per i bar del territorio».

Strascichi da pandemia nella quotidianità lavorativa? «In quei giorni la vita è stata stravolta, gli orari, la presenza a casa, cercare di conciliare i miei tempi con quelli di mia figlia Giulia, per non lasciare che vivesse troppo da sola questo tempo strano anche dal punto di vista emotivo. Ma se devo dirla tutta, sul fronte della ricerca delle notizie, l’impossibilità di recarmi nelle sedi istituzionali non è stato un limite, non un limite nuovo almeno. Da mesi, per esempio, in Basilicata i giornalisti non possono accedere alle sedi del consiglio regionale se non compilando un modulo con il nome della persona con cui vanno a confrontarsi. Ecco, è un pezzo della crisi oggi: un tentativo sotterraneo di mettere il bavaglio all’informazione è in corso da tempo, e non ha a che fare con il coronavirus».

Foto di Engin Akyurt da Pixabay

No, alle ragazze del lockdown non abbiamo pensato | La città delle donne #17

Francesca Caputi ha appena terminato il quarto anno di scuola superiore, il secondo liceo classico “Quinto Orazio Flacco” di Potenza. È una delle ragazze di questo tempo, a cui la pandemia di coronavirus ha chiesto di scendere a compromessi, rinunciando alle piccole e grandi libertà della vita pre-Covid-19.

Francesca Caputi

In questa emergenza sanitaria neanche alle ragazze abbiamo pensato fino in fondo. Quanto ne sappiamo, ai tavoli delle task force, di quanto e come sia cambiato il loro orizzonte?

«Quando è cominciato il lockdown, non c’è stato più spazio di fuga, all’improvviso non c’è stata alternativa per nulla». A partire dalla didattica a distanza. «Non è una questione di risultati, ho continuato a studiare con profitto. – racconta – Ma con i professori, con l’approfondimento in classe, è un’altra cosa. Non riesco a immaginare un altro anno così, davvero».

Di punto in bianco è stato necessario ripensare il tempo e lo spazio. «Senza sport, senza danza, ho perso gli appuntamenti quotidiani attorno a cui costruivo la mia routine. All’inizio è stato destabilizzante. Poi mi sono data nuove abitudini, ho recuperato passioni e interessi a cui le mie giornate solitamente affollate mi impedivano di dare spazio. Ma non è stato facile. La convivenza “forzata” ininterrotta della famiglia ha costretto tutti a mediare rispetto al bisogno di solitudine in certi momenti di tristezza, che capitano a tutti, e di cui tutti sentiamo il bisogno».

Le è mancato, dice, abbracciare i nonni e gli amici, nonostante prima d’ora non fosse mai stata un tipo espansivo. «Credo di aver imparato quanto siano preziosi certi affetti che diamo per scontati. Ma, onestamente, non credo che ne usciremo tutti migliori. Io sono fiera della persona che sono e degli amici di cui mi circondo. Ma non siamo tutti uguali. Non è possibile generalizzare. E sono consapevole che spesso, anche tra i miei coetanei, c’è chi guarda a quanto accaduto con l’epidemia con spavalderia, senza responsabilità. Non è questo il coraggio, per me è solo motivo di profonda tristezza».

Nonostante la fine della fase emergenziale e la ripartenza di quasi tutte le attività produttive, scuola e università sono due degli spazi vitali del Paese che propongono ancora un quadro di estrema incertezza.

«A marzo abbiamo vissuto il nostro ultimo giorno di scuola, e non lo sapevamo». In quella inconsapevolezza, racconta Aurelia Marchese, maturanda del liceo scientifico “G. Galilei”, si racchiude tutto il percorso emotivo che ha caratterizzato le varie fasi dell’emergenza epidemica.

Aurelia Marchese

«All’inizio abbiamo tutti sottovalutato la situazione. Quasi fosse una vacanza, una sospensione temporanea, ho pensato di avere un’opportunità per godermi la famiglia, per studiare, per dedicarmi tempo. Nessuno immaginava che sarebbe durata tanto». E non sapevano che sarebbero arrivati all’esame di maturità dovendo rinunciare a un pacchetto di riti e progetti che segnano l’ultimo anno di scuola come un passaggio a una nuova fase della vita.

«Le prime due settimane sono state strane, difficili. Poi mi sono detta: ora recupero tempo di qualità per me. Ho avuto l’occasione di ascoltarmi meglio, ho cominciato a praticare yoga, mi sono avvicinata ad argomenti nuovi, come la psicologia. In famiglia ho avuto modo di affrontare discussioni su temi che prima ritenevo lontani, forse troppo per adulti. Ma sbagliavo: io sto entrando nel mondo degli adulti».

Altro cambiamento, il rapporto con gli altri. «All’inizio nel mio gruppo di amiche eravamo chiaramente tutte più vulnerabili. Ci siamo subito promesse una vacanza insieme appena le misure di sicurezza e le norme in vigore lo avessero permesso. Poi anche questi legami si sono stabilizzati, normalizzandosi. Abbiamo tanti canali per sentirci, whatsapp, instagram, zoom». Hanno dovuto rimodulare l’appuntamento con il viaggio post-maturità. «Direi che a questo punto anche Maratea sarebbe una località perfetta».  

La quarantena ha costretto molti adulti a fare i conti con paure e sbalzi di umore. Ci sono passate anche le adolescenti, proiettate all’improvviso in una dimensione più stretta e con l’obbligo di ridisegnare lo spazio della privacy e del rapporto con i coetanei, amicizie e amori.

Aurora Molinari

«Alla nostra età – dice Aurora Molinari, maturanda potentina, già proiettata verso un’accademia d’arte dopo l’estate – il contatto con gli amici è fondamentale, è davvero importante condividere lo stare insieme, anche senza bisogno di troppe parole».

«Le giornate, superati i primi giorni di leggerezza inconsapevole, si sono fatte tutte uguali, vuote. Certo, lo studio, le letture, la cucina. Ma mi è mancato prepararmi per raggiungere un’amica, organizzare attività, avere del tempo pieno di relazioni e scambio con gli altri. All’inizio tutto passava per call online con trenta, quaranta amici e compagni di classe.  Era come se fosse urgente riempire di voci questa nuova esperienza dell’isolamento. Poi lentamente le call superaffollate sono andate scemando e i legami sono tornati a una dimensione più intima, ma sicuramente non normale».

È come immaginare una parentesi forzata che si è innestata nelle loro vite, vissute e programmate. «Questa pandemia ha toccato anche la sfera più intima delle nostre vite di adolescenti: amori appena cominciati, storie più lunghe, relazioni improvvisamente a distanza in comuni limitrofi. I nostri umori sono cambiati. Chiacchierando con le mie amiche ho percepito maggiore fragilità, come se fossimo diventate tutte più sensibili, pronte a scattare».

Lorenza Crisci ha messo temporaneamente in un cassetto il viaggio InterRail attraverso la Spagna. L’obiettivo principale al momento è superare questo inaspettato esame di maturità. «Mi manca non poter condividere fino in fondo questa tappa con gli amici, trasmetterci a vicenda l’ansia, affrontare i timori, scambiare idee e materiali da studiare». Rappresentante degli studenti al “Galileo Galilei” di Potenza – unica donna eletta nella rappresentanza dal 2012 – confida almeno nella “notte prima degli esami”, in una serata per condividere i ricordi del percorso fatto insieme fino a questo punto.

Lorenza Crisci

«So bene che rispetto al dramma che ha investito la società certi pensieri appaiono superficiali. Ma abbiamo diciotto anni, sarebbe sciocco negare che i cambiamenti e le limitazioni vissuti durante l’emergenza di Covid-19 non abbiano avuto un effetto straniante. Certi giorni è stato come essere in gabbia, alcune volte ho pianto, percepivo un’ingiustizia incomprensibile nel non poter decidere le cose da fare».

Cambiare spazi, orari, programmi. «Mi ha aiutato il teatro, l’appuntamento settimanale con la compagnia che frequento. Seppur online, è stato un incontro salvifico, un appiglio nella straordinarietà del contesto». Nuova routine nei rapporti con il ragazzo, le amiche, la scuola e la famiglia. «Questa quarantena mi ha regalato un rapporto nuovo con mio fratello e una condizione di maggiore complicità con i miei genitori, con mia madre soprattutto. È come se fosse mancato il fattore esterno di accensione del conflitto, tutto è andato avanti con maggiore tranquillità».

E il domani? «Guardando molto avanti, non saprei come e dove immaginarmi. Per ora studio. Anche perché visto da qui, da una periferia del Sud, il futuro è una linea decisamente incerta».

Gli spazi che (non) spettano alla politica nella Commissione pari opportunità | La città delle donne #16

La sentenza con cui il Tar di Basilicata ha annullato le quattro nomine provenienti dal mondo associativo per la Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna (CRPO) dice diverse cose importanti.

Il collegio del Tribunale amministrativo regionale ricorda che, pur ammessa per ruolo e norma, la discrezionalità nelle nomine del presidente del Consiglio regionale non può scavalcare i confini indicati dalla legge.

I giudici amministrativi hanno infatti accolto il ricorso proposto dall’Arci Basilicata e dall’avvocata Morena Rapolla, rappresentati dall’avvocato Donatello Genovese, perché quelle quattro nomine alcune non hanno rispettato il criterio di rappresentatività (per le commissarie designate dalle associazioni Senior Italia Federanziani, International Inner Wheel e CIF Centro Italiano Femminile) e in un caso quello della pertinenza rispetto alla missione associativa (per la commissaria designata da Amici del Cuore, associazione che opera in ambito socio-sanitario).

La sentenza sottolinea che i requisiti previsti dalla legge «costituiscono un vincolo (al contempo autonomo ed eteronomo) dal quale la discrezionalità di scelta non può evidentemente prescindere».

Del resto sia la legge istitutiva della CRPO sia il bando per le nomine stabiliscono che gli obiettivi per cui la Commissione è stata pensata rendono fondamentale che le componenti siano rappresentative di ampie porzioni del territorio e conoscano a fondo le problematiche che ostacolano la crescita libera delle donne. Anzi, la legge istitutiva è persino più restrittiva, chiedendo che le nomine in quota società civile arrivino da “associazioni di donne”, dicitura che il bando ammorbidisce in “associazioni che abbiano tra le finalità statutarie quella di perseguire la crescita culturale, politica e sociale della donna”.

Fin qui il diritto.

Quello che resta è il non detto, non in sentenza almeno. Ma che grazie a questa sentenza forse vale la pena ricordare.

Le donne che compongono la CPRO sono 21. Di queste, 6 vengono scelte dal Consiglio regionale secondo un previsto meccanismo di mediazione e rappresentanza politica. Dunque la politica ha già la propria quota di influenza e determinazione degli equilibri della commissione.

Quando, nel 1991, la legge sulla CRPO venne approvata, nel pieno di una stagione di rinnovato dibattito sulla presenza delle donne nei luoghi della costruzione delle politiche, la scelta di inserire il mondo associativo non fu certo casuale. Rispondeva all’esigenza di una voce ampia e credibile nell’affrontare le difficoltà, il disagio, gli ostacoli all’autodeterminazione e alla messa in pratica dei diritti della donna in Basilicata. Regione, vale la pena ricordarlo, che la Commissione Europea ancora oggi indica tra le dieci nell’intera UE con la minore percentuale di donne lavoratrici.

Il legislatore non ha negato alla politica regionale un’area di legittima rappresentatività o di influenza.

Aveva solo previsto uno spazio minimo dell’organismo in cui alle donne della società lucana fosse risparmiata anche l’ingerenza.

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay