Il cambiamento al tempo del coronavirus

Uno striscione a Potenza sull'emergenza coronavirus

Ho fatto una donazione a due delle strutture ospedaliere che, in questo momento, stanno affrontando con maggiore sofferenza l’emergenza da coronavirus. Ci ho pensato un po’ prima di condividere questo gesto perché tendo a pensare che l’impegno civico sia tale se praticato e non raccontato. Ma poi ho capito che quella donazione si portava dietro una serie di valutazioni e riflessioni di valore pubblico. Così, ne scrivo.

Donando una cifra x ad alcune strutture del sistema sanitario nazionale, in un primo momento, ho pensato che stessi facendo un gesto di solidarietà nei confronti del presidio di salute pubblica, ora sotto stress, retto da donne e uomini che mettono a disposizione competenza, studi, scienza, missione, esperienza. Persone che si prendono cura degli altri, di tutti noi.

Poi ho capito che, in realtà, stavo facendo un investimento sul futuro a breve termine, stavo immettendo risorse personali (il che va bene, sia chiaro) su alcuni nodi del sistema sanitario pubblico, quel sistema, cioè, che potrebbe doversi prendere cura di me.

Mi sono sostituita, o meglio, ho affiancato Stato e Regioni, che del sistema sanitario sono i decisori responsabili.

Ho ragionato, allora, su che cosa sta cambiando in questa emergenza

Sul Guardian, Gaby Hinsliff ha spiegato come in la scuola sia stata, almeno in Gran Bretagna, il primo oggetto di riflessione su ciò che ci aspetta in futuro: come affrontare gli esami di maggio per gli studenti a fine ciclo? vale la pena continuare a progettare prove che assembrano studenti in maxi aule? La giornalista è partita da qui per ricordare come le grandi crisi siano quegli spazi di tempo in cui le cose cambiano radicalmente e, in genere, irrimediabilmente.

Successe anche durante la seconda guerra mondiale, con le donne chiamate in fabbrica e negli uffici a sostituire gli uomini al fronte: non tornano più a essere solo casalinghe. O come accadde con il lavoro part-time dei giovani avvocati travolti dalla crisi bancaria del 2008: il sacrifico necessario, chiesto dai grandi studi per affrontare il momento, divenne il modello di lavoro standard.

Abbiamo accettato come conseguenza della crisi economica e di quella della politica, che gli ospedali diventassero aziende e che a decidere tagli e piani fosse la politica locale, che di quelle azienda era nel frattempo diventata azionista di maggioranza.

Ecco, il problema delle grandi crisi è proprio questo. L’emergenza ci mette in condizione di rinunciare a qualcosa – più o meno volentieri, a seconda del contesto – in nome di un obiettivo superiore o una necessità più urgente. Il punto è capire quali cambiamenti meritino di rimanere irreversibili e quali scelte, invece, mettano a rischio i diritti acquisiti.

Ciclicamente ci diciamo che la crisi è, quasi ontologicamente, un’opportunità. Per la scuola, per esempio, che, seppur del tutto impreparata, a causa della pandemia di coronavirus dovrà per forza fare i conti con il digitale. Per il lavoro che, di nuovo, deve fare i conti con la sicurezza e le possibilità tecnologiche.

Ma non tutti i cambiamenti prodotti da una crisi costruiscono una prospettiva positiva.

Mai come in questi giorni, per esempio, stiamo vivendo la perdita di una libertà, quella della mobilità, che per la mia generazione è sempre stata un dato di fatto. La crisi ha fatto alzare muri e rafforzare confini più di quanto già non fossero stati costruiti o sostenuti ideologicamente in diverse aree del mondo, Europa compresa.

«E non sono solo i nazionalisti – ha spiegato Srećko Horvat – a usare il coronavirus per “dimostrare” che hanno ragione sulla chiusura dei confini». In un articolo pubblicato in Italia da Internazionale il filosofo ha spiegato bene il pericolo politico del coronavirus, che non rappresenta una minaccia all’economia neoliberista, di cui sostiene, invece, egregiamente l’ambiente.

«Dal punto di vista politico il virus è un pericolo, perché una crisi sanitaria potrebbe favorire l’obiettivo etnonazionalista delle frontiere rafforzate e dell’esclusività razziale e quello di interrompere la libera circolazione delle persone (soprattutto se arrivano da paesi in via di sviluppo) assicurando però una circolazione incontrollata di merci e capitali.»

Uno dei cambiamenti per cui dobbiamo chiederci fin da ora se siamo disposti a immaginare così il nostro futuro è quello del maggiore controllo.

E magari, quando l’emergenza sarà finita, risvegliandoci stupiti delle molte cose modificate attorno a noi senza che ce ne accorgessimo, sarà il caso di dare uno sguardo al bilancio della Regione e ai conti dello Stato, tanto per capire quante risorse sono state investite su scuola e sanità pubblica, quella che potrebbe nel breve termine doversi prendere cura di noi.