Due persone a me care mi hanno chiesto di partecipare alla presentazione di un bel libro. Il testo di intitola “Ammazzare le donne è facile. La ballata dell’uomo triste” e parla di femminicidio.
È un lungo monologo di dolore, sdegno, orrore e consapevolezza. La cosa dirompente è l’angolazione: a parlare è l’uomo che sta davanti ai resti della moglie uccisa.
Oggi pomeriggio (22 febbraio 2016) alle 18.00 ne discuterò con l’autrice, Giuseppina Pieragostini, nell’aula magna dell’Unibas in via Nazario Sauro a Potenza. L’idea è quella di dar vita a una breve conversazione aperta.
Dal canto mio, parto da una consapevolezza che questo libro mi ha ri-sbattuto in faccia. C’è una responsabilità profonda nel parlare delle cose, nel chiamare le cose con il proprio nome, nello scegliere toni, sostantivi, aggettivi. Da giornalista ne ho spesso sentito – impotente – il peso, sapendo che il linguaggio è uno strumento importante nella restituzione di un contesto.
C’è una frase che l’assassino dice mentre spiega che, prima di ammazzarla fisicamente, a quella donna ha tolto identità: «Nelle conquiste di tutti i tempi, l’atto di forza iniziale ha il suo naturale proseguimento nel modificare apparenza, lingua, dei, costumi, nomi.»
Allora quanta responsabilità tradiamo ogni volta che liquidiamo la cronaca in un groviglio di luoghi comuni, titoli a effetto, metafore sempre uguali, la foto scelta in modo automatico con la ricerca del tag? Finisce che anche la violenza diventa un format.