Negli ultimi giorni mi sono imbattuta casualmente e più volte nelle parole, nelle parole come tema intendo.
Se sei un giornalista ci fai i conti sempre: misurate, violente, collettive, ironiche, dosate, tagliate. Dipende.
Ci ho riflettuto su. In modo un po’ caotico e senza un collegamento apparente tra le varie occasioni. Salvo, forse, il racconto della realtà che con le parole si fa.
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- Domenica scorsa, su La Lettura del Corriere della Sera, c’era un articolo di Carlo Bordoni: La lingua batte dove la politica vuole.
«Ma una legge può cambiare il modo di pensare e, di conseguenza, il comportamento sociale?» Bordoni parte dal dibattito sulla legge contro l’omofobia che il parlamento italiano dovrebbe approvare e le opposte motivazioni alla base della censura omofoba in Russia. Poi allarga il raggio sul tema generale. «Quella che Sarkozy ha definito la “guerra al dizionario” non è solo frutto di un tentativo subdolo di rimuovere freudianamente il problema e nasconderlo alla coscienza: è un atto sociale.»
I casi della storia sono tanti: in genere hanno a che fare con minoranze. «Con l’evolversi della società le parole si evolvono anch’esse; cambiano senso, si adeguano. Certe perdono l’innocenza e si caricano di un significato odioso.» Qualche volta capita che il termine politically correct, per la comunità a cui si riferisce diventi segno di ulteriore emarginazione.
Le parole hanno un potere sociale. Ma si può davvero arrivare alla mediazione per via legislativa? Di certo conta sempre il linguaggio. Soprattutto se in gioco c’è il diritto all’esistenza. A raccontare il mondo attorno, «il linguaggio fa la differenza».
- A Potenza, c’è una fumetteria che fa da presidio culturale.
Giulio, che la fa vivere da anni, ha organizzato senza contributo pubblico un cartellone di eventi gratuito, con associazioni, artisti locali e autori più noti, come Riccardo Mannelli e Carlo Gubitosa. Con particolare attenzione al sociale, il filo conduttore degli appuntamenti è stato l’impegno. Ecco, questa è una di quelle parole declinabili in mille modi. La pratica, per esempio.
Sempre a proposito di parole, durante la lezione di “giornalismo a fumetti” Carlo ha spiegato che una tavola dovrebbe contenere al massimo 800 caratteri. Dono della sintesi senza perdere la coerenza, insegnano ai giornalisti. La cose si possono raccontare anche in poche parole, quelle giuste.
- Vito è un fotografo che racconta le cose così come accadono.
A Matera era allestita una mostra con alcuni suoi lavori (belli, davvero). Questa fotografia (qui l’originale) è stata scattata a Berlino, si intitola “ConversE”.
“Converse” sono le scarpe delle ragazze sedute sul marciapiede. Giocando con la parola, (to) “Converse” è anche quello che stanno facendo. Chiacchierano, condividendo qualcosa che sta lì, sullo smartphone di una delle tre.
Le parole passano e rimbalzano attraverso un device, che è lo strumento e, insieme, il pretesto. Il resto, in rete o seduti sul marciapiede, è una momentanea connessione di vite.
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