A Potenza, tra qualche giorno, riconsegneranno alla comunità la piazza principale, dopo una profonda riqualificazione. Da qualche tempo, sui giornali locali e nei bar, è l’argomento principale di discussione, tra polemiche sui pro e contro, grandi riserve e curiosità.
Ieri sera, passandoci ancora una volta mi sono trovata a osservarla con attenzione e a notare quanto fosse cambiata, non solo dal punto di vista estetico. Soprattutto, mi sono accorta di come era già cambiato l’approccio dei cittadini a quello spazio.
La nuova pavimentazione, le panchine, gli alberi e una serie di pali dell’illuminazione ne hanno cambiato l’orientamento. La facciata principale non è più quella che si poggia sul corso, ma il lato che staziona di fronte al teatro comunale: un cambio di prospettiva importante.
In pochi minuti, le tre persone che avevano superato i leggeri cordoni di plastica, messi lì a farne ancora un cantiere chiuso al pubblico, sono diventate gruppetti di ragazzi, coppie, capannelli di adulti intenti a commentare, bambini con al seguito un pallone. In pochissimo tempo, e senza che nessuno ci badasse molto, il cordone di delimitazione è stato strappato, è andato giù, è stato scavalcato. E piazza Mario Pagano (ma da queste parti è per tutti piazza Prefettura) si è riempita di un tiepido sabato sera.
La prima cosa che ho pensato è che se i cordoni erano caduti giù così in fretta, senza riserve, è perché i cittadini avevano voglia di riprendersi comunque quello spazio. In quel riempirsi improvviso della piazza – ancora non del tutto pronta – c’era l’urgenza di viverla. E di viverla ciascuno con le personali relazioni sociali, con la curiosità di osservare, capire, giudicare.
In molti, poi, si sono ritrovati sulle panchine che adesso segnano in qualche modo il limite posteriore della piazza: da quella prospettiva ci si gode la luce migliore.
Così, mi sono detta che quanto accaduto nel centro di Potenza suonava quasi come una metafora di quello che sta accadendo nelle vite di tutti noi, nella società e, restringendo il campo, nelle professioni come quella del giornalista. Stanno cambiando in maniera radicale.
Le persone continueranno ad avere urgenza di relazioni, più o meno numerose, più o meno intense. E avranno bisogno sempre di spazi per costruirle e viverle. Vale per quelli fisici e per quelli, sempre più frequentati e sociali, della rete.
In rete, come nella vita reale, si misurano bisogni, comportamenti, ci si adatta o meno a delle regole, si costruiscono comunità.
E chi quei bisogni e quelle comunità deve interpretarli e raccontarli – giornalisti o amministratori, insegnati o politici – deve fare i conti con un cambiamento irreversibile. Le tecnologie hanno cambiato il modo di vivere la realtà. E pure di raccontarcela.
Qui, in città, a molti la nuova piazza non piace e – come spesso accade con i cambiamenti – la comunità si divide. Io sono soprattutto curiosa di scoprire come la città si riapproprierà di questo spazio, come cambierà la fruizione del luogo, ora che ne è cambiata la prospettiva.
Al cambiamento si può resistere, ma in genere prevale la scoperta. Qualche tempo fa, parlando dello slittamento di prospettiva del giornalismo, meglio di me, lo aveva detto Giuseppe: è questione di presente avanzato. È, pensandoci, tutta questione di orientamenti.