La rivoluzione della fotografia sviluppata con gli smartphone si concentra tutta nel passaggio da memoria a esperienza. Meglio ancora, per dirla con Stephen Mayes (per anni nella giuria del World Press Photo), lo scatto, condiviso in Rete, costruisce un ponte.
La fotografia instantanea con gli smartphone ha sfruttato «un’esigenza anche più profonda del raccogliere i ricordi o azzardare una narrazione», dice Jens Haas, che attorno all’articolo di Mayes costruisce un piccolo saggio. Richiede qualche minuto, ma è davvero interessante: From Memory To Experience: The Smartphone, A Digital Bridge.
«L’immagine scattata con gli smartphone sfugge al peso di dover essere un documento della memoria». La condivisione in diretta delle fotografie sviluppa – sia per i contesti generici, sia per gli eventi – un fenomeno di streaming che «non è progettato per essere indicizzato. Quei frammenti non nascono per essere memorizzati». Si accavallano, si sostituiscono, man mano che vengono postati, in rapida successione. «Ma ciascuno di quei frammenti – dice ancora Jens Haas – contribuisce alla comprensione del mondo, in quel momento, da parte dello spettatore».
Più che creazione di memoria, «si tratta di plasmare l’esperienza». Eccolo il ponte su cui viaggia la fotografia digitale istantanea e in connessione.
C’è anche un altro approccio – positivo – al bagaglio che la tecnologia ci consente di accantonare. Jenna Wortham ne ha scritto qualche settimana fa. È possibile, magari inconsciamente e sempre senza generalizzare, che stiamo imparando a selezionare cosa merita o meno di essere fotografato. Anche in questo caso, il titolo del post è già di per sé interessante: Digital Diary: Does Technology Replace Memory or Augment It?
La resistenza dei professionisti ad accettare questa modalità di narrazione del mondo è spesso legata allo spostamento del focus di azione: dal controllo della fotocamera (abilità di pochi) alla post-produzione (che sui device mobili, tra applicazioni e social network, diventa quasi un gioco). I puristi insistono sulla trasformazione dell’immagine: «Peccato che tra vent’anni, a riguardare le fotografie fatte, ti renderai conto che un filtro falso, rende falsa l’intera immagine». Kenneth Jarecke si rivolge direttamente ai reporter o ai giornalisti che usano Instagram per ritrarre (e raccontare) il mondo attorno. In futuro, spiega, a tornarci con la memoria, verrà meno la credibilità del luogo fermato nello scatto. Il post è chiaro fin al titolo: Instagram, the Devil, and you.
Ci sono arrivata attraverso un pezzo di Michael Zhang, su PetaPixel, che ne pubblica un estratto e riassume la posizione di Jarecke, scegliendo soprattutto una emblematica immagine di copertina. Può uno scatto fatto con Instagram (o con altre applicazioni simili) resistere alla prova del tempo?
Se il terreno del dibattito è quello della memoria, azzardo a ipotizzare che non dovrò pentirmi, tra qualche anno, del racconto dei luoghi e delle persone che mi trovo sempre più spesso a fare, ricorrendo a Instagram o ad altri social network. Quello che faccio, in fondo, è raccontare – oggi – una porzione di mondo, all’instante, ritagliando lo spazio visivo in un orizzonte quadrato, colorandolo di luce attraverso i filtri. Ma il mio bagaglio di memoria comincia un secondo dopo, quando quello scatto diventa pubblico e condiviso con chi, magari solo attraverso la Rete, mi sta attorno.
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