«Ogni fotografia, specialmente se ritrae persone, ha sempre una lunga storia alle spalle». E le storie che Davide Monteleone racconta arrivano, spiega, spesso all’improvviso, perché qualcosa ha riaperto il «cassetto di immagini» che ognuno di noi si porta inconsciamente dietro.
Davide è un narratore straordinario, di luoghi e di contraddizioni in cui probabilmente ci avventureremmo poco. Ha vinto per tre volte il World Press Photo e il premio Carmignac Gestion per il fotogiornalismo.
La fotografia, ripete sempre, non è stata una folgorazione. Ci è arrivato con l’approccio di chi scopre uno strumento utile e pratico per andare in giro e vedere quello che accade nel mondo.
Così ho provato a chiedergli qualcosa sul fotogiornalismo, le inchieste, il mestiere cambiato con il digitale. E su come sia cambiato il lavoro dell’informazione, tra interpretazione e testimonianza.
Hai fotografato proteste, migrazioni e guerre. Ma i tuoi lavori più conosciuti sono di ricerca su comunità, popolazioni e abitudini. Come scegli dove andare?
Scelgo in base a quello che mi interessa, e in qualche caso per quelle strane combinazioni della vita che uniscono privato e professionale. Da anni ormai mi occupo della Russia, l’attenzione che ho per questa parte del mondo è notevole e quindi la scelta è “limitata” pur considerando le estensioni del Paese. Non mi dispiace, di tanto in tanto, avventurarmi in luoghi e storie di cui sono meno esperto. In fondo ho scelto questo mestiere anche per scoprire cose nuove.
Oggi che ruolo hanno nel racconto di quello che accade nel mondo i fotoreporter e il documentario fotografico?
Credo che la fotografia documentaria, o se vogliamo il fotogiornalismo, abbiano ancora una funzione testimoniale. La questione più importante è capire che a essere cambiato è chi produce queste immagini. Se fino a un decennio fa c’era un numero limitato di fotografi professionisti, oggi può esserlo potenzialmente ogni cittadino dotato di uno smartphone. La distinzione ovviamente è notevole in tanti aspetti, ma immagino principalmente per una forma di consapevolezza che i professionisti dovrebbero avere e che ai non professionisti spesso manca. Credo anche che l’evoluzione di questa fotografia porti un certo numero di fotografi a diventare più sofisticati nelle loro ricerche, ad approfondire maggiormente le storie che affrontano. Non sono più solo testimoni ma anche “suggeritori”, opinionisti, che possono aprire le porte di storie e mondi sconosciuti.
Digitale e Internet hanno stravolto i vecchi modelli dell’informazione: come è cambiata la relazione tra il tuo lavoro e le testate o le agenzie?
C’è ovviamente molta più competizione. L’offerta di fotografie è cresciuta e di conseguenza i compensi ridotti. Il lavoro con l’editoria non è più proficuo come qualche anno fa. Io ho pochissimi clienti nell’editoria. Relazioni che si sono consolidate negli anni e che mi garantiscono una libertà e una creatività per affrontare le storie che mi interessano o che interessano ad entrambi. Oggi molte delle mie produzioni sono il frutto di collaborazioni multiple con i media, con fondazione, con editori, gallerie e sponsorizzazioni private. Anche le agenzie hanno subito duri colpi, soprattutto le agenzia che sviluppavano solo il mercato editoriale. Se le agenzia sono nate per supportare i fotografi, oggi sono spesso i fotografi a supportare le agenzie. In cambio, in qualche caso, ne condividono il prestigio e la possibilità il lavorare e progettare collettivamente.
Quando bianco e nero e quando colore?
È una delle limitate scelte tecniche della fotografia. Non esiste per me una ragione specifica che giustifichi l’uno o l’ altra. Alle volte dipende dalla storia alle volte dal mio umore.
La tua fotografia non è solo informazione, ma anche interpretazione. Qualcosa in più del giornalismo, dell’investigazione?
La fotografia è sempre interpretazione, come tutte le forme di espressione. A anche quando si sceglie di lavorare con la realtà e si sceglie la strada dell’impassibilità del giudizio è inevitabile interpretare.
Usi ancora la pellicola per sperimentare?
La usavo fino a qualche mese fa. Ora uso una macchina molto tradizionale con un dorso digitale molto moderno.
Inseguire storie, nel tuo lavoro, può rivelarsi pericoloso. Che cosa ti resta ogni volta?
Non credo sia più rischioso di molti altri lavori. Mi rimangono tutte le esperienze che ho vissuto, tutte le storie che ho ascoltato, i cibi che ho assaggiato, le bevande che ho bevuto, le canzoni, i profumi, la noia, la paura. In una parola sola direi che mi rimane la vita.
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Le foto di Davide sono straordinarie, lo sono anche la sua storia e la sua gentilezza. Se siete a Milano in questi giorni c’è una mostra con gli scatti del suo ultimo lavoro Spasibo. Se siete altrove, Sky Arte gli ha dedicato uno dei documentari della serie fotografi del nostro tempo: Anima Russa. Dentro condensa il suo rapporto con quel pezzo di mondo che è diventato un po’ casa, che ha esplorato e scoperto, in un momento di fibrillazioni, repressioni e zar contemporanei.
(la foto del profilo di Davide è di @Internazionale)