La distanza breve che funziona

Se vuoi che l’informazione iperlocale funzioni, non basta indirizzarsi a una comunità e farne il target del servizio.

“Bisogna dare a quella comunità una soluzione unica e strutturata, costruita proprio sulle informazioni di cui ha bisogno.” Jeff Sonderman su Poynter comincia da qui per elencare un paio di dure verità del giornalismo iperlocale. Il punto di partenza è il caso Journatic, la società nata per trovare in giro e fornire contenuti locali a media mainstream, ma che – si è scoperto – ha spesso inventato quei contenuti.

Ci sono diversi motivi, spiega Sonderman, per cui è difficile immaginare che una testata iperlocale possa funzionare in outsourcing: un conto sono gli utili contributi esterni, un conto, però, le decisioni editoriali, la copertura dei fatti importanti, l’ascolto della comunità, i contenuti specifici.

Proprio “non si può essere iperlocali, mente si è iperdistanti”, è l’altra verità che insegna il caso Journatic. La motivazione è Sergio a riassumerla: sono proprio le relazioni a costruire la forza dell’informazione locale e a contaminare contenuti e giornalisti.

Certo, l’informazione iperlocale non è un modello economico vantaggioso (e questa è la verità più severa dell’elenco), non nel senso comune del profitto, almeno. Ma è proprio la spinta super-locale quella che spesso garantisce la sopravvivenza. Sull’Economist, un estratto dalla versione cartacea ricostruisce alcune tendenze che hanno dato soddisfazione, anche nel passato.

Nel 1978, sir Ray Tindle, il proprietario dell’Observer Tenby, per rilanciare la testata di riferimento di questa piccola cittadina britannica diceva ai suoi giornalisti: “Se c’è un gatto a Tenby che partorisce, noi dobbiamo saperlo.”

La forzatura sull’attenzione iperlocale alla comunità ha, in fondo, un corrispettivo reale molto pratico. Finché ci saranno genitori o proprietari di immobili, ci sarà qualcuno che si ha fame di notizie su mense, pianificazione urbanistica e crimalità.

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