La lezione dell’esperienza, vista dalla periferia

Potendo mettere un momento da parte il livello del contenuto programmatico e i ragionamenti sullo scenario politico che apre, il manifesto di Fabrizio Barca racconta qualcosa di importante anche dell’informazione, soprattutto del fare giornalismo locale.

C’è un paragrafo in quelle 55 pagine che il ministro per la Coesione territoriale chiama “La lezione dell’esperienza“.

È la parte più densa, secondo me, della prospettiva condivisa. È quella dello sguardo reale su una porzione di Stato, la parte che ha attraversato, affrontato, conosciuto nei 16 mesi da ministro, alle prese con il patrimonio più importante del Paese: i territori, le comunità, gli amministratori locali.

È il punto in cui, quasi all’inizio del lungo manifesto, costruisce le premesse della sua scelta di impegno politico. Ma se sposto l’attenzione dalla finalità al semplice racconto di quel testo, è un altro il punto di vista che mi interessa.

La lezione di esperienza di Barca ci ricorda che c’è un bisogno urgente, soprattutto nelle periferie, di sentirsi parte di un progetto, attori di crescita, protagonisti della partecipazione al cambiamento. Delle città, delle zone industriali, delle scuole, del sociale, dei mestieri e del lavoro, dell’ambiente, dei diritti e dei percorsi decisionali.

Questo coinvolgimento, a livello locale, può funzionare con più intensità. Sono i livelli dove la sperimentazione e la partecipazione crescono con una cittadinanza, amministratori compresi, spesso già pronta al confronto.

C’è bisogno, però, di chi sappia raccontare le periferie che al sistema dell’informazione ancora delegano – vorrebbero – una funzione necessaria: la conoscenza del territorio, della sua gente, delle politiche amministrative.

Nel raccontare la distanza dei partiti (della politica in generale) da interi settori della società, dice Barca:

«L’ho vista nella solitudine di sindaci chiamati a fidarsi di un Ministro della Repubblica che invitava a cambiare metodo, non potendo essi contare su una rete di partito entro cui verificare i propri dubbi (“sarà la solita favola?”), dare robustezza alla propria“voce”, trovare la forza di manifestare le proprie soluzioni.»

Questione, spiega, di opportunità mancate. La distanza si è rafforzata nell’incapacità politica di costruire spazi di confronto, fisici e di rete. Spazi di accoglienza, scontro e critica.

Sono opportunità mancate anche per i giornalisti, per chi deve raccontare, provarci almeno, come stanno le cose, partendo dai fatti, dai dati, dalle immagini di tutti i giorni. La distanza, allora, sta anche qui:

E nell’impiego limitato da parte dei media, e pressoché nullo da parte dei partiti, dei dati forniti con modalità “aperte”sullo stato di attuazione o sull’efficacia di interventi pubblici, leva potenzialmente dirompente per stanare e incalzare una macchina pubblica arcaica piuttosto, partiti e Stato tendono ad agire nei territori spesso semplicemente per conservare gli assetti dati, vuoi con decisioni autoritarie, disattente alle specificità delle persone e dei contesti, vuoi con complice lassismo.

Anche il mondo dell’informazione, ce lo diciamo spesso, ha responsabilità generali nella barriera issata tra società e forme di rappresentanza. Ma quando è a livello locale che l’informazione non è capace di interpretare un luogo, sfruttando tutti i dati a disposizione, usando i vecchi  e i nuovi canali di racconto, significa un’immediata possibilità in meno per quel territorio.

Significa rinunciare a una funzione che ancora ha senso. Significa non riuscire a tutelare un pezzo del più importante patrimonio di questo Paese.

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