Qualunque cosa oggi sarebbe stata convenzionale, non abbastanza, e poi perché solo oggi?
Ma ho cambiato idea, o meglio: posso farlo a modo mio.
Condivido il post più interessante tra quelli che ho visto circolare nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nella giornata che dovrebbe servire a raccontare ogni anno i passi in avanti fatti nella battaglia collettiva (che è battaglia culturale) contro il fenomeno.
È un pezzo curato da Matilde Paoli, della redazione Consulenza Linguistica dell’Accademia della Crusca: indaga la nascita e la diffusione del termine “femminicidio”.
Il link è qui: i perché di una parola.
A un certo punto, nel tempo, nell’uso e nella scelta del termine per indicare la violenza, è cambiato qualcosa: «Non si tratta solo di una parola in più, allora, per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi.»
La seconda parte del testo è un articolo di Rosario Coluccia dello scorso maggio: «Se una società genera forme mostruose di sopraffazione e di violenza – dice – bisogna inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione.»
Ecco, in questi due passaggi c’è tutto quello che credo valga la pena dire oggi. Che poi è quello che vale ogni giorno.
C’entrano i comportamenti, i modelli culturali, le storie personali, le norme, l’educazione. Ma so anche che c’entrano le parole.
Nella vita di tutti i giorni, di più se è per mestiere, le cose da raccontare hanno un proprio peso: è una responsabilità.
E le parole, anche quelle sono importanti.
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