Ti dicono subito: «Stai con gli occhi aperti, osserva, impara». Perché una delle prime cose che restituisce il giornalismo è quel groviglio di storie e persone in cui ti imbatti fin dal primo pezzo e con cui poi devi sempre fare i conti.
Vale in periferia e nella grande realtà: la portata della storia o la dimensione della testata non cambiano il peso della responsabilità del giornalista nei confronti della comunità a cui sta parlando e di cui sta parlando.
Vale quello che dice Don McCullin a Mario Calabresi, direttore de La Stampa: «Bisogna sempre restituire, dare qualcosa in cambio quando si è in una situazione da cui si sta solo prendendo».
Il fotografo racconta della lezione avuta a Cipro nel 1964 e poi spiega che, in fondo, la regola si impone a ogni latitudine. «Non si deve andare in un altro Paese per testimoniare la sofferenza, ci sono guerre sociali nelle nostre città : poveri, senza tetto, immigrati, rifugiati. Io non me li sono mai dimenticati.»
E anche oggi che il modello a cui eravamo abituati è cambiato, ora che digitale e vite connesse hanno travolto il mestiere, ora che il sistema dell’informazione fatica a reinventarsi sostenibile, la responsabilità verso quel groviglio di storie resta.
Per questo A occhi aperti è un libro sul giornalismo.
Quella a Don McCullin è solo una delle dieci interviste che Calabresi ha realizzato a grandissimi nomi della fotografia internazionale. Scorrendo i racconti di chi, guardando in un obiettivo, si è imbattuto «in un appuntamento con la Storia», capita di rileggere alcune consapevolezze del giornalismo.
Lo dice Calabresi nell’introduzione: «Questo non è un libro sulla fotografia, ma sul giornalismo: andare a veder, capire, testimoniare».
Cambiati modelli, tempi e linguaggi, ci sono lezioni che restano invariate.
Lo sguardo dello straniero è tutto nella lezione di Josef Koudelka. Vale soprattutto per i giornalisti locali: è la capacità di attraversare anche i luoghi di sempre con la voglia della scoperta, quel modo di superare l’abitudine e costruire una narrazione diversa. O, per dirla con Alex Webb, l’idea di lasciarsi sempre aperta «la possibilità di cogliere una realtà inaspettata».
Quando Steve McCurry torna ai reportage dall’Asia piegata dai Monsoni dice: «Non puoi stare un po’ fuori e un po’ dentro: se la gente è sommersa fino al collo devi essere dentro con loro, non c’è separazione, non puoi stare sulla sponda a guardare, ma devi diventare parte della storia e abbracciarla fino in fondo.»
La distanza, la giusta distanza, non è un parametro.
Capita di dover raccontare tragedie, storture e parecchio dolore. A volte capita, capita anche nelle piccole realtà. Calabresi raccoglie una testimonianza di Abbas che fotografò l’Iran, il Biafra, il Vietnam. Per farlo, spiega, serve sul momento una «una barriera alle emozioni» rispetto a quello si sta raccogliendo, o raccontando. «Ma se pensi di esserti salvato ti sbagli, stai solo immagazzinando tutto nel tuo subconscio e poi arriverà il momento in cui tutto tornerà a galla. È come una bomba a orologeria che prima o poi esplode, e di solito il botto arriva nei sogni.»
È l’idea della responsabilità verso l’informazione, verso la storia e le persone che la riceveranno.
«Il lavoro di un giornalista – scrive Jordan Stead – è quello di riportare una storia al pubblico con chiarezza, precisione e rispetto.»
Stead è un fotografo del SeattlePI. Si è trovato tra tanti colleghi a seguire una frana nello Stato di Washington che ha fatto diverse vittime. These pictures are not for you, scrive.
Come ogni volta che una tragedia irrompe nella quotidianità collettiva di un luogo, i media si affrettano in quello che per un po’ diventa il centro del mondo. Poi l’attenzione si spegne, i media nazionali vanno via e la comunità colpita a dover ricostruire la normalità.
La responsabilità verso una storia e verso chi la leggerà comincia da questa consapevolezza.